ANALISI EVOLUTIVA DEL MITO DEL CAPRICORNO
di Rosamaria Lentini
INTRODUZIONE
Da oltre un decennio sono riuscita a realizzare il desiderio di iniziare a studiare in modo serio la mitologia e precisamente, la mitologia greca. E’ un desiderio antichissimo le cui origini sono in un libro di scuola; ai miei tempi la mitologia greca si studiava nelle classi della scuola media ed è di quel periodo la nascita di un innamoramento che solo negli ultimi anni ha trovato lo spazio per diventare uno studio concreto e metodico.
Tale studio mi ha portato all’astrologia anzi allo Zodiaco, perchè è più giusto dire che sono una studiosa dello Zodiaco più che dell’astrologia, della quale conosco ciò che mi serve per procedere nell’approfondimento dei significati dello Zodiaco stesso.
Questa straordinaria eredità del passato, oltre l’aspetto mitologico, mi affascina anche per la profondità psicologica che può raggiungere e far raggiungere e, in questo senso, può diventare un momento di Conoscenza (quella con la c maiuscola) nel quale significati mitologici e psicologici s’intrecciano in un mutuo scambio.
Con lo studio dello Zodiaco, pertanto, posso dire che ho unito due miei grandi amori volti alla conoscenza dell’uomo nel suo duplice aspetto: quello che riguarda gli affari della Terra e quello si rivolge al Cielo per cogliere il senso religioso dell’esistere. In questo senso attraverso lo Zodiaco possiamo compiere un cammino iniziatico che parte dal risveglio arietino della natura per giungere nei Pesci ad affacciarsi ai Grandi Misteri che giacciono nelle profondità marine alle quali possiamo arrivare solo con l’intuizione e un’affinatissima sensibilità
Esaurita questa premessa passo alla trattazione del tema del giorno, iniziando dall’esposizione del mito, per giungere poi alla disamina dell’aspetto astrologico e psicologico insito nel Capricorno e nel mito che lo sorregge.
Al Capricorno, come segno di Terra, mi è sembrato più che giusto attribuire il mito di una Grande Madre. Ma quale?
Come ultimo segno di Terra, come segno nel quale si trova il Medio Cielo, e, infine, come primo della terna dei segni della vecchiaia, la scelta è caduta su Cibele ed è dall’esposizione di questo mito che prenderà il via la conferenza.
IL MITO
Nella Frigia e precisamente nei pressi di Pessinunte, vi era una pietra nera, chiamata Agdos che veniva adorata in quanto rappresentava la dea Cibele. Di questa pietra s’innamorò Zeus che una notte la fecondò con il suo seme dando vita ad Agdistis. Costui era un essere così selvaggio che gli dei chiesero a Dioniso di punire la sua tracotanza, e il dio ideò questo piano: prima fece ubriacare Agdistis e, quando questi si addormentò profondamente, gli legò il membro maschile ad un albero, cosicché, quando si svegliò e si alzò bruscamente, la sua irruenza tese la corda al punto che gli recise il membro e dal sangue sgorgato dalla ferita della sua evirazione nacque il melograno.
La storia continua con la nascita Attis che si fa risalire alla vergine Nana, figlia del dio fluviale Sangarios: passeggiando lungo le rive del fiume, Nana trovò una melograna, la raccolse e se la mise in grembo, ma il frutto entrò dentro di lei che da quel momento iniziò la gravidanza.
Quando Sangarios si accorse dell’accaduto fece imprigionare la figlia con la volontà di farla morire di fame, ma Agdistis la nutrì di nascosto permettendole di portare a termine la gravidanza e così nacque Attis. Cresciuto, divenne un giovinetto così bello che Agdistis s’innamorò di lui e, quando il suo amato decise di sposare Atta, la figlia del re Mida, il giorno delle nozze si presentò e con il suono del suo flauto fece impazzire tutti i presenti. Colto da follia Attis iniziò a vagare per la selva gemendo e strappandosi i vestiti, fino a quando afferrato un pugnale si evirò sotto un pino, offrendo il frutto della sua evirazione ad Agdistis e morendo dissanguato subito dopo.
Dal suo sangue, tutt’intorno al pino, nacquero viole.
Di questo mito, arrivatoci già in versione greca, c’è qualche variante, però quello che rimane fermo – il mitologema- è l’esistenza di Cibele , questa grande divinità della Terra, la Madre di tutti gli dei e degli elementi, come veniva designata, alla quale sono collegati Agdistis prima e poi Attis, entrambi evirati.
Cibele s’inserisce, dunque, nel novero delle Grandi Madri ed è una divinità protettrice della fecondità, degli animali selvatici e della natura selvaggia, all’interno della quale si aggira su un carro trainato dai leoni.
E così come per Demetra -Kore- Persefone, in Cibele -Agdistis- Attis abbiamo l’attribuzione divina all’avvicendarsi del ciclo della natura nel suo tipico aspetto di nascita-morte-rinascita.
Ma le somiglianze finiscono qui, perchè ci sono molte differenze che si esprimono innanzi tutto nel rito, che conosciamo bene dal resoconto che ne fanno diversi autori greci e latini.
Le feste in onore della dea a Roma iniziavano il 15 marzo e terminavano il 27 dello stesso mese. Prevedevano una serie complessa di rituali, ma solo sui tre dei quali mi soffermerò.
Il 22 marzo i dendrofori, i portatori d’alberi, si recavano nel bosco di Cibele per tagliare il pino consacrato ad Attis. La cerimonia era lunga e prevedeva il taglio dei rami, in modo che rimanesse solo il tronco ( il fallo) che veniva fasciato di sacre bende di lana e ornato di ghirlande, di violette e degli oggetti pastorali di Attis ( vincastro, cembali e siringa), poi al centro del tronco stesso si metteva l’effigie di un giovane che rappresentava il dio, e infine l’albero veniva portato nel tempio di Cibele. Lì rimaneva per la venerazione del popolo che, esattamente come si fa al cospetto del cadavere prima della sepoltura, si abbandonava a scene di lamento e di pianto, testimonianza di un dolore straziante.
Il 24 la festa raggiungeva il suo culmine nel dies sanguinis, il giorno del sangue: l’Archigallo, il gran sacerdote, si lacerava la carne delle braccia per offrire il sangue alla dea e dopo di lui, fra musiche e danze frenetiche, si consumava un rito molto cruento, perchè tutti i sacerdoti di Cibele, i Galli, più molti spettatori si flagellavano con lo scopo di donare sangue alla dea e non era raro che, eccitati da tutta l’atmosfera, dalle danze e dalle urla, dal suono dei cembali, dei tamburi, dei corni e dei flauti, anche molti partecipanti si ferissero o addirittura si castrassero.
Il 25 marzo si celebravano le Hilaria, Era il giorno coincidente con l’equinozio di primavera, ovvero con il primo giorno dell’anno in cui il periodo di luce inizia ad essere lungo quanto quello della notte, era perciò un giorno di gioia e di ilarità, perchè l’oscurità invernale cedeva il passo allo splendore della luce solare.
La festa iniziava nottetempo, quando una luce improvvisa squarciava le tenebre: era il segnale che il dio era risorto e con lui era risorta la continuazione della vita vegetale ed umana.
La corruzione della morte era stata sconfitta e si onorava questo grande evento con una processione nella quale venivano festeggiate le nozze di Cibele e Attis e al suono di flauti, cembali e tamburi la statua della dea sfilava per le vie di Roma.
Le nozze erano la dimostrazione che il ciclo vita-morte-rinascita proseguiva inalterato nel suo continuum e che nulla aveva interrotto quel cerchio uroborico che riassorbe tutti gli opposti e nel quale il tempo è eternità e lo spazio infinità, quel cerchio uroborico che assicura l’Eterno Ritorno e che è alle radici di ogni civiltà passata.
Questi cenni e in particolare ciò che avveniva nel dies sanguinis mostrano la crudezza rituale tipica di un’epoca remota e della quale non vi è più alcuna traccia, per esempio, nel più raffinato culto di Demetra e in quello di tante altre Grandi Madri disseminate nell’area mediterranea.
Era un’orgia di sangue, in effetti, che continuava un’arcaica tradizione quando l’uccisione di bambini e di giovinetti, o anche l’evirazione del maschio, erano un rituale praticato periodicamente, perché la terra, così come dava la vita, parimenti la richiedeva e, pertanto, il sangue da lei donato, doveva esserle offerto al fine di propiziarsi la sua benevolenza.
Le vittime sacrificali erano sempre appartenenti al sesso maschile e i motivi di tale scelta erano due: il seme maschile penetrava nella terra, fecondandola, e la donna, inoltre, con la sua capacità generativa, era la visibile e diretta prosecuzione umana di ciò che faceva la Grande Madre Natura e, quindi, era intoccabile.
A questo proposito così scrive Frazer:
“Questi mutili strumenti di fertilità venivano poi impacchettati e sepolti rispettosamente in terra o in camere sotterranee sacre a Cibele, dove, come per il sacrificio del sangue, venivano forse considerati capaci a richiamare Attis in vita e ad affrettare la resurrezione generale della natura, che allora faceva germogliare le foglie e sbocciare i frutti sotto il sole primaverile….Queste divinità femminili esigevano dai loro ministri maschi, che impersonavano dei divini amanti, il mezzo per disimpegnare le loro benefiche funzioni: dovevano esse stesse essere impregnate dall’energia generatrice prima di poterla trasmettere al mondo. Tra le dee, così servite da sacerdoti eunuchi, v’era la grande Artemide di Efeso e la gran dea siriana Astarte di Ierapoli…. “
E così dice ancora Neumann:
“Il sacrificio della virilità arriva ad una completa identificazione con la Grande Madre nella pratica d’indossare abiti femminili seguita dai Galli, i sacerdoti castrati della Grande Madre in Siria, a Creta, a Efeso, ecc. e tuttora conservata nell’abbigliamento del clero cattolico. Il maschile viene sacrificato a lei, e con ciò si diventa suoi rappresentanti, si diventa femminili, si porta il suo abito.”
Per quanto concerne il mito mi fermo qui, vi ritornerò solo dopo aver considerato il Capricorno nel suo aspetto più evoluto perchè è dalla disamina di questo significato che si può arrivare a collegare segno e mito.
IL CAPRICORNO, L’ANDROGINO, L’UNO
Innanzi tutto fermiamoci a considerare la straordinaria iconografia del Capricorno: una capra con la coda di pesce e due lunghe corna. Se analizziamo il disegno dal punto di vista degli elementi, vediamo che ci sono tutti e quattro, perchè la coda di pesce appartiene all’Acqua, la capra alla Terra, le corna sono un universale simbolo del Fuoco e infine c’è l’Aria, invisibile come è nella sua natura, ma indispensabile perchè ci sia la capra con tutti i suoi attributi.
Ma perchè a questo segno iconograficamente così particolare e onnicomprensivo è stato assegnato il decimo posto e quindi il numero 10 che, nella sua scansione di 1+0, dà luogo all’Uno e quindi al compimento di un processo con relativo inizio di un altro. Cosa si compie nel Capricorno?
A questa domanda è impossibile rispondere senza fare un passo indietro e fermarsi un attimo a considerare cosa succede nel Sagittario, perchè la consequenzialità dei due segni è molto importante soprattutto relativamente al fatto che i loro confini sono costituiti dal Medio Cielo.
Guardiamo l’iconografia del Sagittario e, come per il Capricorno, ci colpisce immediatamente la sua straordinarietà.
Sagittario e Capricorno si presentano a noi con un disegno che è un simbolo.
Mi spiego meglio: tranne i segni appena citati, tutti gli altri sono rappresentati da forme che esistono nella realtà, perchè esiste l’ariete, come esiste lo scorpione, la bilancia ecc, ma certamente non esiste un essere metà cavallo e metà uomo e non esiste una capra come quella raffigurata nel Capricorno.
Si può legittimamente pensare, perciò, che i due Segni e le loro relative case abbiano avuto già alle origini dei significati speciali che la figura simbolica esprimeva e contemporaneamente spingeva a ricercare e certamente non può essere un caso che queste due raffigurazioni simboliche comprendano il Medio Cielo.
Vale la pena a questo punto ricordare un attimo l’etimo del vocabolo < simbolo>; è una parola composta da syn –con e ballò –mettere, quindi il suo significato è mettere insieme, ossia riunire. E allora la domanda è: cosa debbono riunire il Sagittario e il Capricorno e cosa condividono con il Medio Cielo?
In questa seconda domanda in forma implicita c’è la risposta alla prima, quella che chiedeva
Possiamo iniziare a rispondere che si conclude un processo di separazione attraverso la riunificazione di due metà ed è da questa riunificazione che si compie il ciclo e si torna all’Unità.
Ed ora passiamo a considerare quali siano queste metà.
Il lungo viaggiare e l’affinare la conoscenza della vita e dell’animo umanoportano il Sagittario a sentire dentro di sé la ferita di Chirone, che, come narra il mito, nonostante sia un Maestro e sia immortale, viene colpito da un dolore che non ha tregua e che costituisce anche l’anticamera della sua morte, perchè alla fine Chirone muore come un qualsiasi uomo.
In effetti, nella nona casa l’uomo, lasciata l’eternità del processo riservato alla vita naturale , scopre l’esistenza del
Non è senza ragione che questa scoperta avvenga nell’autunno della vita quando, con un pensiero puro e libero dai tanti affanni del quotidiano e con lo sguardo rivolto al cielo, noi stabiliamo un contatto diretto con la grande ed eterna forza procreativa del Sole, quella forza che consente la Vita e che per un tratto ha dato la possibilità di esistere alla nostra.
E’ nel Sagittario che l’uomo raggiunge la tensione massima verso il divino e si ricongiunge ad esso, ma proprio mentre ristabilisce quest’unione – la sua trascendenza - crea anche la separazione fra la vita della Terra e quella del cielo, fra il finito e l’infinito, fra la mortalità e l’immortalità.
Ed è con questa intima, profonda e umile consapevolezza che supera il confine stabilito dal Medio Cielo ed entriamo nel segno del Capricorno.
Siamo giunti nel primo dei tre segni della vecchiaia, in quella X casa nella quale, superato il nostro autunno e dunque oltre la seconda metà della vita, possiamo aprirci ad una visione dell’atto del vivere che escluda il nostro piccolo e particolare interesse .
E’ arrivato ormai il tempo, infatti, che l’individuo chiuda con quella lunga e importantissima fase di vita che lo ha visto impegnato nella costruzione e nel rinnovamento di se stesso ed inizi una nuova fase della sua esistenza.
Ogni segno cardinale è un cardine e dunque una porta, quella che apre il Capricorno è, come dice Porfirio, la porta dell’anima, simboleggiata appunto da quella coda di pesce che il Capricorno ha trascinato lungo l’asse verticale della croce, quello che congiunge l’Imo al Medio Cielo. E’ l’asse del tempo lungo il quale la nostra anima, nata in Cancro e impregnata di sensitività ha percorso un cammino che l’ha fatta dischiudere prima alla razionalità – e possiamo pensare al lavoro della Vergine- e poi a quella visione spirituale che gli ha offerto il Sagittario.
Con quest’ultima anima l’uomo giunge, dunque, nella sua decima casa, alla fine del suo viaggio alla conquista della terra ed ora della terra può cogliere tutta la sua magnificenza, il divino insito in lei e in se stesso come parte della terra. Può entrare in contatto con il divino presente nell’ ’immanenza.
Ecco dunque cosa riuniscono i due segni così simbolici dello Zodiaco, ci riuniscono al divino insito nel Cielo e nella Terra, dunque ci riuniscono al divino presente in tutto l’universo e lo fanno nel Medio Cielo, in quel punto che indica dove si trovava il Sole al mezzodì del giorno della nostra nascita e che di conseguenza indica il punto più alto della nostra elevazione interiore, la nostra luce interiore che ci consente di cogliere appunto il divino della vita. E’ in questo segno che l’uomo, questo piccolo appartenente al microcosmo, risana la frattura fra micro e macrocosmo.
E’ così che nasce il figilo di Dio! Nasce Cristo, prima di lui Mitra, nasce ogni figlio di Dio, di un Dio, non importa quale, che è luce, amore, fratellanza, solidarietà, unità e nutrimento per il genere umano.
Urano e Saturno, il padre e il figlio, ora sono di nuovo insieme, dopo l’evirazione perpetrata da Saturno ad Urano e con la quale divise il cielo dalla terra e sono insieme a formare quell’ Uomo che è giunto finalmente ad essere figlio del divino e a coglierne tutta l’immensità.
Si dice sempre che Saturno sia un pianeta di Terra e quanto più la dimestichezza interiore con questo pianeta diventa profonda e consapevole tanto più si sente quanto ciò sia straordinariamente vero e necessario.
Saturno è colui che ci conduce a rispettare le leggi della Terra, le
Quando il Capricorno diventa realmente un Segno della vecchiaia, nel senso che c’è corrispondenza temporale fra segno e individuo, allora l’antagonismo, che ha sempre contraddistinto l’innovatore e spesso ribelle Urano e l’ordinatore Saturno, finisce ed è da questa fine che nasce il Figlio Divino, colui che proprio tramite l’accettazione delle leggi della Terra può diventare figlio del Cielo.
Studi piuttosto recenti parlano della decima casa come di colei che segnala l’eredità materna, ossia ciò che la madre ha lasciato al figlio come compito da realizzare nella vita. E’ un concetto che si può interpretare in vari modi e può riferirsi ad un preciso desiderio materno che il figlio deve portare a compimento in una storia del tutto terrestre e terrena, ma può avere anche un alto significato simbolico.
In ogni donna c’è il principio della vita, c’è l’essenza della Grande Madre Terra che porta alla luce ciò che il Cielo ha fecondato; poter raccogliere l’eredità di tale principio è il risultato cui giunge il Figlio, e lo può fare proprio perchè dentro di lui ci sono le grandi e le piccole leggi della Terra, le sole che ci possono far ricongiungere al Cielo onde poter ritornare a quell’Uno che, prima ancora di essere acquisito dalla filosofia, era così bene compreso ed espresso nei tanti miti che sono alla base della nascita dell’universo.
Fra le tante Dee Madri, Cibele è quella che mi pare essere più vicina a rappresentare l’Uno, quell’Uomo nel quale la forza del principio maschile e del principio femminile sono così presenti e così inscindibili. Ecco perchè Agdistis e Attis sono evirati, i loro membri e il loro sangue non possono separarsi da Cibele, la Grande Madre Natura che è insieme seme e frutto, principio generatore e creatura generata.
Non in tutte le Dee Madri, ripeto, queste due forze sono immediatamente leggibili come in Cibele, che anche a livello di rappresentazione visiva comunica questa unità. La dea, infatti, ci è stata tramandata in due immagini, in una è seduta su un trono con ai piedi due leoni e sul capo una torre, nell’altra appare seduta su un carro trainato da leoni e con capo sormontato da una torre.
Nessun animale , come il leone, esprime la potenza maschile-solare e la torre, con il suo aspetto assiale, rimanda all’unione della sfera terrestre con quella celeste.
La conservazione di questi due elementi così significativi fa di Cibele, perciò, la dea che in forma diretta ed esplicita rappresenta la natura nell’interezza del suo ciclo, colei che armonizza tutti gli opposti, che nello stesso tempo è terra e cielo , vita e morte, seme e frutto, principio generatore e generazione, è l’Unità, quell’Uno che è agli albori della nostra storia, ed è quella totalità che è stata espressa anche in forma umana ed è l’androgino, come racconta Platone e come indica lo Zodiaco nel segno del Capricorno.
L’androgino è una straordinaria figura - anche qui un simbolo- che ci ha lasciato l’antichità. La voce più autorevole che ce ne ha parlato è Platone, quando afferma e sono parole sue tratte dal Simposio:
“ In origine c’erano tre sessi umani, non due, maschi e femmine soltanto come ora, ma ce n’era un terzo che partecipava dell’uno e dell’altro e che, scomparso oggidì, sopravvive appena nel nome. C’era allora un terzo sesso, l’androgino, che di fatto e di nome aveva del maschio e della femmina, e questo non esiste più fuorché nel nome ….. I sessi erano tre e così fatti per questa ragione; che il sesso maschile traeva origine dal sole, il femminile dalla terra e l’androgino dalla luna, perchè anche questa partecipa del sole e della terra.”
Tutte le Dee Madri, sappiamo bene, appartengono alla Luna, a quell’astro che, proprio in quanto è parte del Sole e della Terra, ha in sé una doppia possibilità, ha il nascere e il perpetuarsi della vita e, in questa funzione, può assurgere a simbolo di quelli che successivamente saranno designati come
In diversi scritti Jung ci parla di Cristo, ovviamente quale figlio di Dio, ma solo dal punto di vista psicologico, escludendo quello religioso che non è di competenza della psicologia.
Nella figura di Cristo, ma anche in quella di Adamo, di Dioniso…, secondo Jung viene concretizzato il simbolo dell’androgino, di quello straordinario individuo che ha in sé del maschio e della femmina e che, in quanto tale, costituisce quell’Uno che è alla base delle concezioni religiose del passato.
A questo proposito è interessante anche ciò che scriva Elémire Zolla:
“ L’archetipo dell’androgino si aggira per le terre…. In una prospettiva metafisica l’incontro con l’androgino è sempre stato inevitabile. Quando la mente s’innalza al di sopra dei nomi delle forme, non può che toccare il punto in cui anche le divisioni sessuali vengono superate. Sulla via verso la trascendenza totale, i mistici incontrano l’esperienza visionaria dell’amore e del matrimonio divino, in cui essi divengono le estatiche spose della divinità”
Queste considerazioni di Zolla ci riportano ad Agdistis e ad Attis, ad Agdistis che nutre la nuova vita chiusa nel grembo di Nana ( come non pensare a Persefone che prepara Kore) e ad Attis che nasce per ricongiungersi a Cibele, all’Uno, ossia, che garantisce la continuià della vita.
Ma possiamo considerare l’androgino anche in senso psicologico oltre che metafisico e in questo caso è il Sé, ossia la nostra totalità.
All’atto della nascita, infatti, il Sé è tutto, noi viviamo immersi nel nostro Sé perchè l’Io ancora non è formato e quindi viviamo all’interno di tutte le potenzialità umane che debbono ancora trovare la loro forma precipua, l‘inconscio di questa fase originaria è solo l’inconscio collettivo, il patrimonio psicologico di tutta l’umanità.
La crescita e l’arricchimento dell ‘Io permettono una graduale separazione dal Sé e la costruzione di una forza interiore in grado di tenere disuniti l’inconscio personale da quello collettivo; la mescolanza dei due, infatti, è dannosissima e genera quella grave patologia che Jung definisce
E’ solo dopo un lungo cammino esteriore e interiore che possiamo riaccostarci al Sé, all’inconscio collettivo, e coglierne la profondità e il senso.
Possiamo perciò pensare al Sè come ad una partenza e ad un arrivo e, rapportando questo discorso allo Zodiaco, possiamo vedere il viaggio della nostra anima che da un inizio cancerino e sensoriale giunge al Capricorno con l’affinamento acquisito negli anni e nelle innumerevoli esperienze portate dalla vita. Sono state loro che hanno permesso la separazione da quell’unità indifferenziata che rappresenta il momento iniziale della vita, per giungere tramite il lavoro dell’anima razionale a quel processo d’individuazione, nel quale identità e differenze consentono una nuova e consapevole unità indifferenziata, in quella fase, ossia, dove tutte le differenze e tutti gi opposti tornano all’Unità e con essa ritorna l’Androgino.
A chiusura di questo lungo discorso che da tre punti di vista ( mitologico, astrologico, psicologico) analizza un processo di perdita e ritorno all’Uno e all’Unità, c’è da chiedersi: ma perchè i nostri lontani antenati avessero questa visione della vita che hanno espresso in tanti modi, tutti ovviamente da decodificare?
La risposta è semplice in verità: l’uomo viveva nel sacro, tutti i fenomeni del mondo e della vita erano racchiusi in un vigoroso sentimento che tutto abbracciava dando a tutto un’impronta sacra.
Le cerimonie di iniziazione servivano ad entrare nel sacro che era spazio sacro e tempo sacro ed entrambi cooperavano a ristabilire l’appartenenza al Cosmo.
Inizialmente, dunque, non c’era alcuna divisione, il sacro e il profano si sono formati nel tempo creando una spaccatura per la quale il sacro è stato lasciato alle religioni e il profano agli affari terreni.
Questa separazione si è accentuata sempre di più fino ad arrivare ad oggi, ad un punto, visibile soprattutto in Italia, nel quale le due visioni della vita hanno assunto un carattere di quasi incomunicabilità che porta sempre di più ad uno scontro frontale come possiamo verificare quasi quotidianamente.
Il Capricorno, nella sua essenza più profonda e come segno della decima casa e del ritorno all’Uno, può farci ritornare a quella vita che poggiava nel tutto, nella quale tutto era tutto, parimenti a come Gea ed Urano erano permanentemente uniti o come Attis non poteva separarsi da Cibele. Tornare a quel momento iniziale, tornare sottolineo, diventa il momento nel quale effettivamente l’individuo rientra nell’Universo e raggiunge quel punto di sutura nel quale lui, come microcosmo, può riprendere la sua smarrita appartenenza al macrocosmo.
In questo ritorno è racchiuso il senso più profondo dello Zodiaco ed è in questo ritorno che lo Zodiaco assurge a rito d’iniziazione.
Vale certamente la pena di riportare alcune considerazioni di Jung:
“L’equazione Sé=Dio…. è un’intuizione specificatamente orientale,…. Per l’indiano è chiaro che il Sé come originaria sorgente psichica, non è diverso da Dio, e che nella misura in cui l’uomo è nel suo Sé, non soltanto è contenuto in Dio, ma è Dio stesso.”
Con queste nuove certezze il viaggio nel tempo può proseguire e lo fa negli ultimi due Segni della vecchiaia, quando l’uomo è finalmente in grado di restituire le sue nuove ricchezze ed è, perciò, che dalla sua brocca colma di saggezza può far sgorgare la linfa di un nuovo amore e di una nuova vita. E, infine, dopo questo atto nel quale restituisce alla vita ciò che da lei ha preso, l’Uomo della Terra e del Cielo può inoltrarsi nel dodicesimo segno, in quel
La conferenza potrebbe chiudersi qui, ma può risultare interessante fare un accenno ad un evento molto importante ed anche in linea con quanto detto finora.
ll 26 gennaio Plutone ha fatto il suo ingresso nel Capricorno. Cosa significa e cosa significherà questo è tutto da verificare, tenuto conto che è la prima volta che il pianeta, da quando è stato scoperto, si trova a transitare in questo segno.
Tralascio la disamina di ciò che tale transito potrà comportare a livello sociale e mi fermo solo a considerare ciò che potrà significare all’interno dell’uomo.
In questi ultimi tempi (sull’argomento recentemente c’è stata anche una trasmissione televisiva) si è parlato molto del 22 dicembre del 2012 come data della fine del mondo secondo il calendario Maja.
Escludendo la visione catastrofica di questa data che ci porterebbe a diventare una seconda Atlantide, cosa altro può significare la fine di questo mondo?
Molto più confortevole e utile è pensare a dei profondi mutamenti che avvierà Plutone, facendo emergere nuove potenzialità.
Il Capricorno è il segno del potere e Saturno è colui che lo governa. Il potere può avere due significati opposti uniti da una serie d’intermedi: il potere può essere desiderio di sopraffazione e di dominio ed è l’accezione negativa, ma può essere anche l’espressione del potenziale umano e allora il termine assume il significato di possibilità rimanendo vicino alla sua provenienza latina nella quale il verbo
Il potere come sopraffazione in questi ultimi anni sta dando eclatanti dimostrazioni di se stesso sia a livello mondiale, sia a livello personale, perciò da questo punto di vista non c’è proprio nulla di nuovo che deve emergere e allora possiamo pensare ad un nuovo modo, a qualcosa che inizierà a cambiare il modo di essere e di abitare la Terra.
Nella X casa si realizzano le nostre potenzialità lavorative e quindi la nostra capacità di autonomia, insieme a questa, però, c’è anche la concretizzazione della nostra indipendenza e quindi della nostra capacità di essere giunti a svincolarci da inibenti legami psicologici, detto ciò e prendendo in considerazione i due termini
Allora Plutone in Capricorno potrebbe segnalare un nuovo destino che deve darsi l’umanità, collettivamente e individualmente?
Come ho trattato in tutto il lavoro, il traguardo finale del Capricorno è l’apertura dell’anima all’Universo, quell’anima che riassorbe ogni individualismo e ogni opposizione e permette di conseguire quell’unità che ci ricongiunge al Cielo.
Questo potrebbe essere il nuovo destino che si dà l’uomo, da conseguire però non nella vecchiaia, ma nel corso della vita e potrebbe essere quella nuova sensibilità della quale ho appena fatto cenno.
Urano potrebbe dare questo nuovo uomo, che finalmente è giunto alla consapevolezza che la propria esistenza è in perfetta connessione con quella del resto del mondo e che è da questo assunto bisogna tornare a partire.
Concludo, riportando, una sintesi di un’importante osservazione di Leo Frobenius che traccia un percorso del processo cognitivo che ha seguito l’uomo e che ora, sottolinea, ha raggiunto il suo culmine.
Secondo Frobenius inizialmente il mondo animale impressionò l’uomo e l’attrasse come un Mistero; a questo mondo l’uomo si identificò in modo immediato e spontaneo. Possiamo aggiungere noi che lo Zodiaco con i suoi sei segni appartenenti al mondo animale è una chiara eredità di questo lontanissimo passato.
In seguito fu la natura vegetale a costituire lo stupefacente Miracolo - Mistero della Terra che genera frutti, per poi morire e rinascere e possiamo pensare legittimamente che fu in questa fase che nacque il culto delle Dee Madri, anch’esse presenti nello Zodiaco.
Infine, con lo sviluppo delle civiltà del Medio Oriente, l’attenzione si spostò sui ritmi e sui cicli delle sette luci cosmiche.
Oggi, continua ancora Frobenius, il Cielo è del tutto tramontato, la filosofia e la scienza lo hanno demitizzato e, continuando la trasformazione già visibile in Omero, hanno costruito un mondo incentrato esclusivamente sull’uomo.
Il Mistero - Uomo e il fascino esercitato dalla sua scoperta hanno preso il sopravvento su tutto e, mettendo a poco a poco sullo sfondo il senso religioso della vita, hanno separato l’uomo dall’universo e lo hanno portato, gradualmente e inesorabilmente, a considerare la Terra solamente come il luogo indispensabile alla realizzazione dei suoi progetti. È stato un lungo processo, durato millenni e il cui punto di arrivo è stato il ‘900 che con le sue innumerevoli innovazioni ha fatto esplodere le potenzialità umane, come mai era accaduto nel passato, e dalla Terra l’uomo è passato a diventare anche il padrone del Cielo.
Frobenius faceva queste analisi nella prima metà del ‘900 – è morto nel 1938- ma ora la padronanza del cielo di cui parla è diventata in molti casi un delirio di onnipotenza e l’ipertrofia dell’Io è una malattia quasi epidemica alla quale non è facile sottrarsi.
Penso e mi auguro, che quell’Uno che si ricompone nel Capricorno sia un lento, graduale e faticoso ritorno a quell’epoca in cui il miracolo della natura animale, vegetale e umana formavano la Vita, nessuno dei tre aveva delle priorità sugli altri e una profonda religiosità sorreggeva e guidava la vita dell’uomo.
DAL MITO AL FOLKLORE
MONTEVERGINE E LA FESTA DELLA CANDELORA
Ho scritto all’inizio che sono una studiosa del mito ed ora aggiungo che mi affascina molto anche andare alla ricerca di quanto il mito abbia lasciato nella tradizione popolare, quindi sono una studiosa anche di antropologia.
Le pagine che seguono sono un’espressione di questo secondo interesse e rappresentano, inoltre, la causa prima – l’antenato dell’’argomento trattato nella conferenza.
Buona lettura e partiamo per il Santuario di Montevergine!
L’abbazia di Montevergine, situata, a ridosso di Avellino, sul massiccio montuoso del Partenio, è il più noto santuario mariano della Campania ed anche uno dei luoghi sacri più frequentati d’Italia, sempre relativamente alla devozione della Vergine.
La sua lontana origine risale alla scelta di un eremita, Guglielmo di Vercelli, che intorno al 1119 si ritirò su questo monte seguendo il suo desiderio di solitudine, ma tale desiderio dovette essere accantonato al cospetto delle schiere di pellegrini che ben presto iniziarono a rivolgersi a lui e a chiedere di divenire suoi discepoli. In breve si formò una comunità che rese necessaria la costruzione di una chiesa e di un monastero.
Era nata l’abbazia che, nel giorno della Pentecoste del 1126 fu consacrata da Giovanni, vescovo di Avellino.
La prima icona della Madonna, detta di San Guglielmo in omaggio all’eremita, fu opera di un artista di nome Gualtiero che ne fece omaggio al monastero durante la costruzione, ma questa prima immagine, verso la fine del 1200 fu sostituita da un’altra effige di ben più illustre provenienza.
La nuova icona, infatti, si iscrive nella tradizione delle “Madonne di San Luca”, dette anche di Odeghetria.
Secondo una leggenda, l’evangelista Luca fu il primo ritrattista della Madonna e il suo primo dipinto fu detto di Odeghetria, da odos, “via”, a precisare che Maria è la guida della nostra strada terrena. Più tardi, a causa della posizione del braccio di Maria che indica il Figlio, la parola fu riferita a Cristo e assunse il significato di “via, verità e vita”.
Questa Madonna non esiste più, perchè fu distrutta durante l’assedio di Costantinopoli, però le copie sono tante, in numero di circa seicento, sparse un po’ ovunque e sono le Madonne Nere, le Madonne, come un tempo le Dee Madri, alle quali era affidata la custodia e la protezione della vita vegetale durane i mesi invernali.
Ricerche molto accurate e pertanto del tutto attendibili, lasciando da parte la questione circa la paternità del dipinto, sostengono che la Madonna di Montevergine sia la copia, ottenuta in modo speculare, della Madonna di Odeghetria.
Ma anche un’altra leggenda arricchisce questo luogo di un alone di misteriosità e lo connota in un modo del tutto particolare. Si narra che nell’anno 1256 due giovani omosessuali, scoperti ad amarsi, vennero prima cacciati dalla comunità e poi denudati e legati ad un albero sul monte Partenio con l’obiettivo che fossero sbranati dai lupi o morissero per la fame e per il freddo; ma la Vergine, commossa dall’intensità del loro amore, li liberò dalle catene consentendo ai due innamorati di poter vivere la loro storia d’amore alla luce del sole.
La leggenda, che probabilmente ha qualche tratto di concretezza storica, è tuttora viva e costituisce un prezioso antefatto ad uno degli aspetti, forse il principale, della festa che annualmente si celebra a Montevergine, in un culto che è contemporaneamente pagano e cristiano e che trova il suo punto d’incontro nel rendere omaggio alla Madonna, a Mamma Schiavona, come la chiama la voce popolare, che .
E’ intorno a questa Madonna Nera, la Mamma Schiavona, che il 2 febbraio, il giorno della Candelora si riuniscono i femmenielli giunti da vari posti della Campania, ma innanzitutto dai vicoli di Napoli e precisamente dai quartieri spagnoli.
Arrivano in tanti, e non sono soli, perchè con loro c’è una moltitudine di persone: abitanti dei vicoli, donne, bambini, contadini della zona, fedeli e turisti, ma, nonostante la folla di così varia provenienza, loro, i femmenielli, rimangono i grandi protagonisti della giornata.
Un tempo arrivavano con il , un carro trainato dai cavalli e addobbato di fiori colorati e nastri, oggi ci sono le macchine e i pullman, ma loro sono rimasti gli stessi: vestiti con colori sgargianti, vestiti di nero, ammantati in splendide pellicce, vestiti o travestiti, addirittura vestiti da sposa, sono loro, un’umanità che canta e balla al suono della tammorra, e di tipici strumenti partenopei. Ma fra tutti questi antichissimi strumenti trionfa la tammorra, e la tammorriata segna il momento dell’apoteosi di questa indescrivibile festa. Al suono di questo millenario tamburo le danze e i canti si fanno frenetici, fino a quando all’improvviso si alza la potentissima voce di Marcello Colasurdo. Sono quasi quaranta anni che Colasurdo per la Candelora compie il pellegrinaggio che di lui ha fatto un re, il Re, ed è infatti con fermezza da re che, in piedi sul sagrato, grida: “Mamma Schiavona, Mamma Schiavona, noi venimmo a te ca devozione” e a ricordo dell’ostruzionismo operato dalla Chiesa, continua “‘na messa ‘a fanno lloro e ‘na cantata ‘a facimme nuie: Mamma Schiavona ‘o ssape ca fede è ‘a stessa.” (1)
Ma chi sono i femminielli? E cosa festeggiano nel giorno della Candelora?
Parlare dei femminielli è aprire un grande capitolo della cultura napoletana, è fare luce su aree dimenticate, è, soprattutto, sanare una grande frattura fra vecchio e nuovo o, più precisamente, fra il credo dell’antica Grecia portato in suolo italico dagli abitanti della Magna Graecia, conservato e trasmesso da Roma e, interrotto dal cattolicesimo che imboccò una nuova e diversa strada religiosa.
Definire il femmeniello un omosessuale è assolutamente improprio e riduttivo, perchè questa figura, prima ancora che designare una preferenza sessuale, appartiene a buon diritto alla cultura popolare, nella quale nasce e vive e dove riceve sempre un’accoglienza affettuosa e partecipe.
Napoli, infatti, è una città nella quale ha sempre imperato la tolleranza e l’omosessualità, in qualsiasi forma si presenta e anche laddove è canzonata e ironicamente sbeffeggiata, alla fine non ha mai suscitato alcun rigetto, nessun sarcasmo, una critica spietata o, peggio ancora, una violenza mirata.
Possiamo facilmente immaginare che questa considerazione scaturisca da quanto rimane di una lunga storia che l’omosessualità e il travestimento hanno alle loro spalle, una storia che appartiene al sacro e che, come tale, non può suscitare apprezzamenti di vero dileggio e comportamenti violenti.
L’esempio più probante della sacralità del femminiello è dato dalla , che fino a pochi anni fa ritualmente si svolgeva in località poste ai piedi del Vesuvio, ai piedi, ossia, di questo grande, amato e temuto Dio del Fuoco, in grado di dare la vita e la morte.
Così Della Ragione (2) descrive l’evento: “Sdraiato sul lettino e assistito dalle parenti, il femminiello vive le ore del travaglio ed il momento del parto. Alcuni soggetti s’immedesimano a tal punto nel rituale, da presentare, per effetto di una profonda quanto inconscia memoria ancestrale, tutti i segni della sofferenza, con un’evidenza sconcertante, dall’accelerazione del battito cardiaco alla sudorazione, dal pallore anemico alle contrazioni dei muscoli addominali. Durante le doglie le parenti accompagnano il travaglio con ritmiche litanie, la cui origine si perde nella notte dei tempi, dal trivolo battuto, letteralmente dolore picchiato, al classico taluorno, un triste accompagnamento vocale delle veglie mortuarie caratterizzato da una lamentazione ritmica scandita da colpi portati alle guance dalle due mani contemporaneamente, mentre la testa oscilla ampiamente avanti e indietro.”
Alla fine nasce il bambino, spesso è un bambolotto, a volte un grande fallo che viene festeggiato con vermouth e babà.
Andando più indietro nel tempo si può ricorrere ad Abele De Blasio, medico, antropologo e docente universitario, che sul finire dell’800 ci parla dello spusarizio mascolino: due femmenielli venivano uniti in matrimonio nel corso di una cerimonia che si svolgeva privatamente, di solito in un basso dei quartieri spagnoli; al termine della cerimonia e del rinfresco gli sposi si ritiravano nella camera da letto fino all’indomani, quando il più anziano del gruppo andava ad accertarsi che il matrimonio fosse stato consumato.
Ecco a grandi linee il femminiello, questo straordinario essere, che ha in sé la possibilità di procreare e di generare, è seme e frutto, uomo e donna contemporaneamente ma, paradossalmente, non è né l’uno né l’altro e non è neppure un omosessuale… E non lo è per il semplice fatto che è un femminiello, ossia un androgino.
Nella sua essenza, infatti, è il simbolo di qualcosa che non appartiene del tutto a questo mondo, perchè in lui vive e si muove una grande diversità, nella quale l’omosessualità rappresenta l’aspetto più evidente, ma anche quello più fuorviante. Appartiene alla cultura napoletana, dicevo all’inizio, ma è più giusto dire che è nell’humus napoletano, così gravido di umori mediterranei che è sopravvissuto da una lontanissima antichità, vivo e forte anche quando non si chiamava così.
Negli ultimi anni, purtroppo, la componente della sessualità ha preso il sopravvento e quindi molto spesso il termine femminiello è usato come sinonimo di omosessuale e per lo più di un’omosessualità che vistosamente si prostituisce con seni e labbra gonfiati dal silicone, tacchi a spillo, minigonne mozzafiato e in siffatta versione la dolcezza, quell’aria di affettuosa protezione, l’’ironia e l’autoironia si sono perse, soffocate dalla volgarità e da un’aggressività volta a difendersi dalla violenza che circola in tutta la società.
Ma… c’è un “ma”! Ed è dato proprio dalla festa che il 2 febbraio vede riunita questa straordinaria e variopinta umanità che si riunisce sul monte Partenio per un atto di culto alla Vergine.
La Vergine salvò i due omosessuali, come narra la leggenda, e questo potrebbe essere una possibile spiegazione, ma perchè renderle omaggio proprio il giorno della Candelora?
Quasi nessuno più fa caso a questa ricorrenza che ha origini antichissime, quando, però, la data era posticipata e coincideva con le Idi di febbraio.
Il 15 di questo mese, infatti, a Roma si celebravano i Lupercalia (3), una festa in onore del fauno Luperco, protettore della campagna, dei boschi e delle greggi, una divinità rurale, dunque, preposta alla fertilità della terra. Era una festa della natura, che proprio in quel periodo e, secondo la scansione dell’anno agrario, aveva generato la possibilità del nuovo raccolto, poiché il seme aveva iniziato a mettere radici e da questa trasformazione sarebbero poi venuti alla luce, dal grembo della terra, i primi germogli.
Proprio in vista di questa si compivano riti di purificazione e fra gli altri quello della februatio, ossia la purificazione della città: le donne giravano per le strade portando candele a dimostrazione che l’inverno stava cedendo il passo alla primavera e, cosa molto più importante e connessa alla prima, che la vita dal buio stava risorgendo alla luce.
Se per un momento chiudiamo gli occhi e compiamo un salto indietro nel tempo, forse possiamo vedere anche noi queste donne che si aggirano per la città illuminandola con la luce delle candele, scacciando tutto ciò che è oscurità e impedimento alla perpetuazione della vita.
Tale festa, la festa dunque della luce e della purificazione, fu abolita dal Papa Galesio I verso la fine del V secolo e fu sostituita con la commemorazione di un’altra purificazione, quella compiuta dalla Vergine: secondo la legge ebraica una donna che avesse partorito un figlio maschio era considerata impura e doveva, pertanto, sottoporsi al rito di purificazione, così quaranta giorni dopo la nascita di Gesù la Vergine dovette recarsi al Tempio per riconquistare la sua purezza.
L’abolizione della festa pagana e la sostituzione con quella cattolica portarono ad un’anticipazione della data perchè i 40 giorni, a partire dal Natale, terminano il 2 febbraio, giorno nel quale attualmente durante la Messa vengono benedette le candele, unica residua testimonianza del rito pagano.
Ecco cosa festeggiano i femmenielli il giorno della Candelora: la fine del buio e il ritorno della luce, la morte dell’inverno e la rinascita della vita nell’ormai prossima primavera.
Ma perchè festeggiano ciò e perchè a Montevergine?
Cosa c’è in questo luogo che può indurre a tali antichissime credenze che, guarda caso, si riallacciano alla figliata dei femminielli e che potrebbero avere autorizzato la leggenda dei due giovani amanti omosessuali?
Sul Monte Partenio, il monte della Vergine, come dice il suo nome, poco lontano dal santuario ci sono i resti dei templi di due Grandi Madri, Cibele e Artemide. Ed è nel mito di Cibele che si possono trovare le risposte e che si chiude quel cerchio che unisce il femminiello al santuario di Montevergine, alla Candelora e, perchè no, alla leggenda dei due giovani che, scoperti ad amarsi, furono salvati dall’intervento della Vergine, l’ultima Grande Madre del nostro occidente.
Frazer: Il ramo d’oro
Neumann E.: Storia delle origini della coscienza,
Zolla E. : L’androgino, la completezza dell’interezza sessuale
C. G. Jung: santi indiani. Prefazione a H. Zimmer, “ La via del Sé”