DA TEUCRO IL BABILONIO A PALAZZO SCHIFANOIA: I DECANI
di Lucia Bellizia
Solvite, mortales, animos curasque levate
totque supervacuis vitam deplete querellis.
Fata regunt orbem, certa stant omnia lege
longaque per certos signantur tempora casus.
Nascentes morimur, finisque ab origine pendet.
Marcus Manilius, Astronomicon, IV (12 – 16)
A porre le basi della raffigurazione del cielo in Grecia furono l’astronomo Eudosso di
Cnido e il poeta Arato di Soli. Dell’argomento ci piacque occuparci in uno studio (1)
pubblicato sulla rivista trimestrale ‘Ricerca 90 dal titolo Della virtù delle stelle inerranti e fu
proprio in quell’occasione che ci imbattemmo in una diversa raffigurazione di matrice
orientale, che non ci fu possibile allora approfondire data la vastità della bibliografia esistente
sull’argomento.
In esso ricordavamo come il geocentrismo, sul quale si fonda il sistema cosmologico
conosciuto col nome di tolemaico, fosse in realtà ben antecedente all’epoca del maestro di
Alessandria. Il sistema detto a due sfere, nel quale sfere concentriche contenenti la Luna, i
pianeti ed il Sole ruotavano - con moto rigorosamente circolare uniforme - in senso anti-orario
attorno alla Terra ed erano contenute tutte da un’ulteriore sfera, quella delle stelle fisse, che
ruotava invece con moto orario (Fig.1), era generalmente accettato in Grecia già dal IV° sec.
a.C..
Fig. 1: Il sistema astronomico a due sfere
T. Kuhn (tr. it.) La rivoluzione Copernicana, Einaudi 1972
Proprio ad Eudosso di Cnido (408-350 a.C.), matematico ed astronomo, allievo di Archita di
Taranto e in un secondo momento del filosofo Platone, si deve la formulazione di un sistema
planetario in cui ciascun pianeta era posto sopra la sfera interna di un gruppo di due o più
sfere concentriche, fra loro collegate: queste sfere rotanti (in numero di 27) dette
omocentriche, in quanto avevano come unico centro la Terra, riuscivano a spiegare con la loro
diversa inclinazione e la loro diversa velocità di rotazione, i movimenti combinati degli astri
erranti, ovvero il moto diurno e quello lungo l’eclittica, compresi gli stazionamenti, le
retrogradazioni e le variazioni in latitudine. Eudosso inoltre aveva soggiornato in Egitto, dove
gli fu messo a disposizione un osservatorio, ed aveva avuto modo di studiare la posizione
delle costellazioni nella sfera celeste, il loro sorgere ed il loro tramontare. Riunì le sue
considerazioni al riguardo in un’opera, andata perduta come tutte quelle da lui scritte, Le cose
che appaiono (Phaenomena) e lo specchio (Enoptron). E’ con lui quindi che si ha una prima
prova di un sistema greco di costellazioni. I Phaenomena tuttavia sono sopravvissuti in
un’opera dallo stesso nome, scritta da Arato (312-245 a.C.).
Questi (Fig. 2), nato a Soli in Cilicia (sulla costa meridionale dell'attuale Turchia),
dopo aver studiato ad Atene, trascorse la propria vita in Macedonia e lì, alla corte del re
Antigono II Gonata, scrisse nel 275 a.C. la versione poetica dei Phaenomena di Eudosso. Si
tratta di un poema didascalico di 1154 esametri, che ci è pervenuto, nel quale Arato identifica
47 costellazioni e dà il nome a 6 stelle: Arturo, Capella, Sirio, Procione, Spica e
Vendemmiatrice. La parte conclusiva dell’opera espone le Prognoseis e cioè gli indizi tratti
dal mondo naturale ed animale, in base ai quali è possibile prevedere i cambiamenti del
tempo.
Fig. 2: Arato di Soli.
Da Veterum illustrium Philosophorum. Poetarum, Rhetorum et Oratorum Imagines (1685)
di Giovanni Pietro Bellori (Roma 1613-1696)
Come il cielo di Eudosso, quello di Arato è ampiamente mitologizzato e alle costellazioni si
assegna un nome: ma quello che in Eudosso era solo un espediente mnemonico-descrittivo
(era necessario, per identificare e riferirsi ad un gruppo di stelle in modo semplice e breve,
che esse avessero un nome) diviene in Arato un sistema di iconografia mitologica. Via via che
le costellazioni vengono passate in rassegna, si allude ai singoli miti ed i nomi divengono
carichi di potenza evocativa: la raffigurazione che gli artisti greci avevano elaborato di eroi e
mostri per ragioni indipendenti dall’osservazione del cielo si sovrappone al disegno delle
stelle, dando inizio ad un processo che nel tempo finirà talora coll’entrare in contrasto con
esso.
Questo processo di mitologizzazione della mappa celeste fa un balzo in avanti con i
Catasterismi, poema scritto da Eratostene di Cirene (276-194 a.C.), matematico, astronomo,
geografo e direttore della Biblioteca di Alessandria, nel quale tutte le costellazioni trattate
ricevono un nome ed un commento specificamente mitologico.
Arato di Soli fu imitato da più di un autore latino: Manilio, Virgilio, Marco T.
Cicerone (admodum adulescentulus), Germanico, Avieno. Ma prima che la loro attenzione,
egli attirò quella del grande Ipparco; questi era nato a Nicea, nella regione allora chiamata
Bitinia ed oggi Turchia, intorno al 190 a.C.; le sue opere sono andate tutte perdute, ad
eccezione de Il Commentario sui Fenomeni di Arato ed Eudosso, nel quale vengono discussi
tre libri: il trattato di Eudosso di Cnido sulle costellazioni; il poema dal titolo Phaenomena
scritto appunto da Arato di Soli; e infine un Commentario su Arato, scritto da Attalo di Rodi
(matematico, astronomo e scrittore suo contemporaneo, che egli apprezzava particolarmente
per le sue conoscenze scientifiche). Il bitinio, da studioso, contestava ad Arato numerose
imprecisioni astronomiche, che non impedirono tuttavia la grande fortuna del poema, che fu
usato nelle scuole come una sorta di libro di testo per l’apprendimento della carta del cielo e
dei racconti mitologici connessi con le costellazioni o con le singole stelle. Ipparco visse ed
operò a Rodi e tra i tanti contributi che diede all’astronomia, ci preme ricordare un catalogo di
circa 850 stelle, che riportava la posizione rispetto all’eclittica e le collocava – per evitare
errori di identificazione – in sei diverse classi a seconda della magnitudo apparente e cioè
della luminosità rilevabile dal punto di osservazione (2).
Questo catalogo è purtroppo andato perduto – a meno che non si accettino le
dichiarazioni dell’astrofisico Bradley E. Schaefer della Louisiana State University a proposito
dell’Atlante Farnese (3) - e se ne ha notizia soltanto attraverso Claudio Tolemeo, che attorno
al 140 d.C. lo riprese e lo ampliò nel settimo e nell’ottavo libro della Mathematiké Sýntaxis,
meglio conosciuta come Almagesto. E’ questa la Sphaera Grecanica che passò all’Occidente
e che rimase immutata sino al XVII sec. senza subire cambiamenti.
Ma parallelamente ad essa se ne sviluppò un’altra, che traeva le proprie origini e la
propria nomenclatura dalla Mesopotamia e dall’Egitto, che va sotto il nome di Sphaera
Barbarica.
Ed è qui che entra in scena Teucro e che comincia il viaggio che ci porterà, attraverso
differenti culture, agli affreschi del Salone dei Mesi di Palazzo Schifanoia a Ferrara.
Teucro! Chi era costui? Se lo domandava ancora cinque anni dopo aver scritto la sua
magistrale Sphaera. Neue griechische Texte und Untersuchungen zur Geschichte der
Sternbilder, il filologo Franz Boll, dolendosi a pag. 193 del VII volume del CCAG di non
poter aggiungere altro a quanto detto in quell’opera su questo astrologo (4).
Il filosofo neoplatonico Porfirio (233 ca. – 305) e il filosofo e politico Michele Psello
(1018 – 1078) sono senz’altro testimoni oltre che dei suoi trattati astrologici, del fatto che
fosse Babilonio ed hanno tramandato come egli avesse scritto su tõn decanõn kaì tõv
paranatellónton autoís kaì tõn prósopon tà apotelésmata (gli influssi dei decani e delle stelle
con essi consorgenti e dei volti), come avesse mostrato i molti aiuti provenienti in faccende
diverse dai 12 segni e dalle stelle che con ciascuno si levano e dai decani, e come avesse
descritto le immagini dei decani da incidere sugli anelli.
Inoltre un anonimo autore (6) ci ammaestra ad esporre tõn sunaphõn kaì aporroiõn
Elíou kaì Selénes kaì tõn loipõn astéron tà apotelésmata kaì tou oróscopou kaì tõn kléron
katà Teukron tòn Babilónion (gli influssi delle congiunzioni e delle deflussioni del Sole e della
Luna e dei restanti pianeti e dell’ascendente e delle sorti secondo Teucro il Babilonio).
Boll conclude poi nel luogo citato che in base alla testimonianza di Porfirio, Teucro gli
era senz’altro anteriore e che non vi sono prove certe che egli si identifichi con lo scrittore del
I° sec. d.C. Teucro Ciziceno, come Karl Otfried Müller ed altri hanno sospettato. Ma
sull’argomento ognuno volle dire la sua: Wilhelm Gundel in Teukros (7) sostiene che era
forse originario di un’antica Babilonia egiziana; Wolfgang Hübner in Teukros im
Spätmittelalter (8) è invece di parere contrario e identifica Babilonia con la nota città
mesopotamica, dalla quale provennero anche altri astrologi che in epoca ellenistica fecero
conoscere l’astrologia orientale. Quanto alla datazione i vari studiosi concordano comunque
che egli visse al più tardi nel I° sec. d.C. ed è a lui che va ascritta la Sphaera Barbarica, una
descrizione del cielo delle stelle fisse, all’incirca tre volte più grande del catalogo astrale di
Eudosso, Arato ed Eratostene, grazie all’arricchimento a mezzo di nomi tratti da cataloghi di
origine egizia e babilonese, che è stata poi ricostruita con acume geniale da Franz Boll.
Ovviamente, in molti casi si trattava di nomi diversi per la stessa costellazione, cosa di
cui Teucro non sembra essersi preoccupato, accrescendo oltre modo la distanza tra il cielo
reale e quello mitologico. L’arricchimento da lui operato infatti non era dovuto certamente a
più precise osservazioni astronomiche. Fra i nuovi abitanti della volta celeste, vi sono i decani
(un misto di astro e divinità), a ciascuno dei quali era assegnato un arco di dieci gradi della
fascia dello Zodiaco: ogni segno corrisponde a tre decani, che signoreggiano dieci giorni
dell’anno e concorrono con i pianeti alla personalizzazione del singolo tema natale.
Il cielo si popola così, accanto ai ben noti personaggi di un tempo, di esotiche
immagini talora inesplicabili; sphaera grecanica e sphaera barbarica convivono
nell’astrologia del tardo ellenismo ed è della seconda che tenteremo di tracciare le migrazioni,
servendoci proprio dei decani.
I Decani
I decani nacquero nell’Antico Egitto quale ripartizione dell’anno in 36 parti: si trattava
di stelle o asterismi che sorgevano a particolari ore della notte durante 36 periodi successivi di
10 giorni ciascuno.
Fig. 3: Parte di coperchio di bara che mostra due Egiziani, assistenti dell’astronomo, una lista geroglifica di stelle – decano e la posizione delle stelle.
(Antony Aveni, Ancient Astrologers, 1993 pag. 42)
Un decano indicava dunque in origine un’ora e sempre la stessa per 10 giorni. Siccome le
stelle sorgono ogni notte 4 m. ca. (3’ 56”) più tardi, un dato decano veniva rimpiazzato dopo
dieci giorni da quello che lo precedeva nell’indicare una data ora. Il calendario civile
egiziano, introdotto all’inizio del III° millennio a.C. (tra il 2.937 e il 2.821 ca.) prevedeva
infatti 12 mesi di 30 giorni; i 5 giorni mancanti (epagomeni) venivano piazzati tra il
trentesimo giorno dell’ultimo mese e il primo giorno del nuovo anno, in modo da raggiungere
il numero 365. L’anno aveva inizio e con esso i decani, il 1° di Toth, al sorgere di Sepedet,
l’eccellente, a noi più nota come Sirio. Troviamo raffigurazioni di questo calendario, nel
quale le stelle venivano di fatto usate come orologi, in dipinti (Fig. 3) che si trovano sulla
superficie interna delle bare della 9° e 10° Dinastia (2160-2040 a.C.). Le troviamo anche sul
soffitto della tomba di Seti I° (1318-1304 a.C.) e su qualcuno dei soffitti/muri della tombe
reali del periodo Ramesside (XII° sec. a.C.).
Questo sistema decanale fu oggetto di una radicale revisione a partire dalla 12°
Dinastia, essendo divenuto inservibile e fu sostituito da un altro basato sul transito al
meridiano, ad una determinata ora di una determinata stella: il nuovo calendario/orologio si
basava quindi sulla culminazione e non più sulla levata (11).
Ma a queste osservazioni squisitamente astronomiche gli Egiziani unirono una
concezione del cielo di natura magico-religiosa, in base alla quale sulla sua strada diurna il
Sole finiva con l’incontrare ogni specie di geni, che gli contendevano, per così dire, la
signoria del tempo, dai quali otteneva di passare a mezzo di incantamenti, e che, dopo il suo
tramonto, regnavano a loro piacimento sul mondo (12). I più potenti, quelli che erano legati a
delle stelle, costellazioni o parte di costellazione, situate sulla strada del Sole, erano le
lampade (cebs - cabs - cabsu) o i gruppi (cet). Questa strada del Sole non era, come
l’eclittica greca, un grande cerchio della sfera obliqua, ma piuttosto una larga banda, che
andava da un tropico all’altro e della quale l’equatore costituiva la linea mediana. La cosa non
ci deve stupire, in quanto del Sole si osservava il moto diurno e i circoli di declinazione
percorsi nelle varie stagioni venivano a situarsi proprio in questa banda. Visto che le stelle si
levano e si coricano talora assieme al Sole, gli Egiziani immaginarono fossero collocate nello
stesso luogo e cioè sulla sua strada. Questi geni-decani erano delle vere e proprie divinità, che
venivano invocate anche per il sovrano. Dice un’iscrizione di Ombos (l’attuale Kom Ombo,
40 km ca. a nord di Assuan): “Il grande disco del Sole, camminando durante il giorno nel
cielo, ha terminato la sua corsa ad Occidente come Dio Atoum: allora la Luna prende
possesso del cielo …. I decani brillano dopo il Sole. Essi camminano in cerchio, levandosi
l’uno dopo l’altro; appaiono dopo che si è coricato, alla loro ora secondo la stagioni. O voi,
anime delle stelle degli dei, che vi innalzate per promettere dei benefici, fate innalzare il figlio
del Sole, il signore dei diademi, Tolomeo eternamente vivo, l’amico di Ptah e di Isis, come vi
innalzate voi stesse” (13).
Non sono rimaste tracce riconoscibili di un’astrologia egizia nella grande antica epoca
del Regno (14): anche se il terreno era stato preparato dal culto solare, sembra che l’astrologia
babilonese non sia penetrata prima del dominio greco, né sappiamo attraverso quali canali,
coinvolgendo l’orgogliosa e conservatrice casta sacerdotale. La parete del tempio di Denderah
(Fig. 4) ci mostra assieme alle più antiche figure delle divinità egizie – i decani – i segni
zodiacali babilonesi: si tratta di un’astrologia tardo-egizia connessa a quella babilonese.
Il testo fondamentale di questa astrologia tardo-egizia sono due opere profeticamente
oscure, attribuite al re Nechepso (effettivamente vissuto nel II° sec. a.C.) e al sacerdote
Petosiris, contenenti rivelazioni destinate ad illuminare gli spiriti regali; scritte in greco da
questi due presunti autori egiziani, contengono tutti i particolari dell’astrologia, di derivazione
non solo babilonese ed antico-egizia, ma anche greca (in particolare l’ordinamento dei pianeti
in base alla durata delle loro rivoluzioni). Questo testo divenne una vera e propria Bibbia per
gli astrologi, affiancandosi per prestigio all’opera astrologica di Claudio Tolemeo. Per la
datazione Boll pensa essa risalga ad almeno 150 anni prima di Cristo, in quanto da per non
ancora distrutta la città di Corinto. (15)
Il patrimonio culturale egiziano (nello specifico quello magico-religioso), così come
quello orientale del resto, aveva quindi lasciato la terra natia e si era fuso con quello greco:
questo era accaduto non a caso durante l’età ellenistica, il cui inizio viene convenzionalmente
posto nel 323 a.C., anno della morte di Alessandro Magno, ὁ Μέγας Ἀλέξανδρος, in un
periodo nel quale l'economia, la società e le istituzioni politiche greche subirono epocali
trasformazioni.
La polis, piccolo universo autosufficiente, in funzione della quale ogni cosa era stata
definita, perfino la libertà, la cultura, i valori morali, cessò di esistere e le varie città-stato
confluirono in regni, fortemente accentrati attorno alla figura divinizzata del sovrano. La
rivoluzione alessandrina portò con sé anche un’evoluzione economica e sociale: si
intensificarono i commerci tra i vari stati e le regioni orientali, fiorirono nuovi centri di
cultura quali Alessandria, Rodi, Pergamo. I Greci vennero insomma a contatto con altre etnie
e ne conobbero i precetti: la cultura da ellenica divenne ellenistica e si diffuse su un più ampio
territorio geografico e con essa un ideale cosmopolitico. Sul piano privato, il declino della
polis e l’impossibilità di partecipare attivamente al governo della cosa pubblica, la
trasformazione insomma da cittadino in suddito portarono ad un mutamento della coscienza
individuale, che si rifletté nei vari sistemi filosofici del periodo (il cinismo, lo stoicismo,
l’epicureismo, lo scetticismo), che ebbero come fulcro delle loro speculazioni i problemi
dell’uomo che ricerca e riscopre se stesso, piuttosto che la riflessione politica.
A partire dal III° sec. a.C. giunge in Grecia dall’oriente anche l’astrologia. Verso il
280 a.C. Berosso di Babilonia dedicava ad Antioco I un’opera in greco, le Storie Babilonesi,
con la quale l’astromantica orientale iniziava il suo cammino nella cultura ellenistica, fino ad
essere legittimata dagli Stoici, ed in particolare da un filosofo ed erudito del calibro di
Posidonio d’Apamea (15-50 a.C. ca.). Ben presto essa avrebbe vinto ogni resistenza culturale,
conquistando sempre maggiori consensi. In questo crogiuolo di esperienze diverse e
contraddittorie si inserisce la figura del nostro Teucro, “babilonio”, che tuttavia si fa
promotore di tecniche interpretative di matrice egizia e della cui opera non restano che
frammenti: possiamo infatti farcene un’idea solo leggendo quelle di coloro, che a lui in
qualche modo si ispirarono o ne riportarono citazioni.
Marcus Manilius, Firmicus Maternus.
Cominciamo da Marcus Manilius, autore di un poema didascalico latino in cinque
libri, dal titolo Astronomicon. Da lui stesso apprendiamo che visse sotto Augusto (cui l’opera
è dedicata) e sotto Tiberio, quindi nel I° sec. d.C. Il poema, rimasto sconosciuto fin quando
l’umanista Poggio Bracciolini non ne scoprì una copia nel 1416 o 1417, non lontano da
Costanza dove si trovava per seguire i lavori dell’omonimo Concilio (16), tratta temi
astronomici, astrologici e filosofici ed è interamente permeato dal desiderio di rinvenire la
ratio cosmica che muove la grande macchina dell’universo e determina la storia umana. Ed a
questa ratio Manilius, coerente con la sua professione filosofica di stoicismo, invita l’uomo ad
inchinarsi, senza cercare stoltamente di piegare il mondo al suo volere.
svuotate la vita di tanti, inutili lamenti.
I fati reggono il mondo, tutto è determinato da leggi precise,
e le lunghe età sono segnate da vicende prestabilite.
Nascendo moriamo e la fine dipende dall’inizio".
(IV, 12-16)
Il quarto ed il quinto libro parlano dei decreti degli astri e della loro azione sui destini degli uomini, di quella parte dell’astrologia cioè che lo Scaligero, come ricorda N. L. Lemaire, definisce apotelesmatica (17); l’astrologo infatti deve saper prevedere gli effetti delle stelle e questi due libri sono appunto apotelesmatici seu decretorii (18). Tra le altre cose nel quarto libro vengono analizzati i decani, che consistono per Manilius in una ripartizione ternaria dei segni nei segni. Si parte dal segno dell’Ariete, che ha quali decani l’Ariete, il Toro e i Gemelli, si prosegue con il Toro, che riceve invece Cancro, Leone e Vergine etc., fino ad esaurire i segni. Poi si ricomincia per altre due volte, fino ad arrivare ai Pesci, che ricevono Aquario, Capricorno e Pesci. (Fig. 5). Questa disposizione dà al matematico la non mediocre soddisfazione, dice Bouché-Leclerq, de constater que le signes associés en aspecte trigone ont même decans et sont, par conséquent, en harmonie parfaite (19). La conseguenza prima di questa divisione è che i nati sotto uno stesso segno hanno caratteristiche diverse a seconda del decano nel quale il loro Sole cade, in quanto si produce una commistione tra il segno natale e quello che lo governa. Non si sa se Manilius conoscesse altri decani oltre questi, sta di fatto che dopo di lui non se ne sentirà più parlare.
Fig. 5: I Decani secondo Manilius
(immagine tratta da Bouché-Leclerq - L’Astrologie Grecque)
L’intero libro quinto invece è consacrato ai paranatellonta, alle stelle o costellazioni extrazodiacali
che sorgendo e tramontando con particolari gradi dei segni dello Zodiaco esercitano
la loro influenza sulla vita umana, facendo sì che i nati abbiano specifiche caratteristiche: ad
es. sorge Argo col IV° grado dell’Ariete e genera i capitani di nave e gli amanti delle belle
navi; sorge col XV° grado di quello stesso segno Heniochus e genera gli aurighi, i domatori di
cavalli, i guidatori dei cocchi nei circhi, i cavallerizzi; sorgono con i primi gradi del Leone
Canis Major e la Canicula e i nativi sono violenti, iracondi, minacciosi, litigiosi, feroci ed
impavidi; e così via sino ai Pesci.
Nessuna correlazione viene fatta tra i paranatellonta e i decani, che sono presentati -
come dicevamo - in una forma della quale dopo di lui non si sentirà più parlare: l’antica
tradizione egizia trova quindi in lui un’espressione assai enigmatica. Teucro non viene citato e
Manilius non ci dice quale fosse la sua fonte diretta, e così si esprime nei versi 298/9 del
quarto libro:
senza precisare chi fossero queste genti; egli comunque è il primo ad usare il termine decanus.
Non esiste infatti in egiziano il termine dekanóς – decanus: i decani erano contrassegnati da
sinonimi quali sibu (stelle), sau (stelle protettrici), nutari (divinità) etc.
Nessuna traccia in Manilius dei decani planetari che troviamo invece in un Firmicus
Maternus o in altri autori seguenti, che assegnano la signoria di ogni terza parte del segno ad
uno dei sette pianeti conosciuti nell’antichità.
Julius Firmicus Maternus (ca. 280 - 360 d.C.) era un avvocato di origine siracusana ed
apparteneva alla classe senatoriale romana. E’ autore dell’opera Matheseos Libri octo, in
latino, che ci è giunta intatta al 90% circa ed è a buon diritto il più lungo trattato di astrologia
che ci sia pervenuto dal periodo classico. In essa sono contenuti i fondamenti dell’astrologia
greca e vengono perfino date raccomandazioni all’astrologo affinché apprenda appieno la
disciplina e possa dare validi responsi e affinché soprattutto si comporti sempre secondo etica
nei confronti del cliente. La Mathesis (20) si presenta come una raccolta di lunghi brani di
autori greci: ogni argomento viene trattato separatamente e non confluisce in un metodo.
Dei decani si parla nel quarto capitolo del secondo libro (De decanis): i decani sono al
solito la terza parte di un segno e mostrano la propria signoria ed il proprio potere (dominium
suum ac potestatem), che sono peraltro infiniti, sui dieci gradi di competenza. Ma, ammonisce
l’autore, ipsi decani singulis stellis deputantur, et si in ipso decano stella fuerit, licet sit in
alieno domicilio, sic est habenda, quasi sit in suo domicilio constituta;
In altre parole il decano è posseduto dal pianeta al quale è assegnato, finisce con
l’esserne un secondo domicilio, visto che il pianeta estrinseca lì gli stessi effetti di quando è
nel suo vero domicilio. Ecco presentarsi alla ribalta non più – come in Manilius – il segno, ma
il pianeta quale signore del decano. Segue l’elenco dei pianeti (Fig. 6), che è peraltro
concorde con quello che si ritrova in Paolo di Alessandria e in Demophilus (21).
Fig. 6: I Decani planetari secondo Firmicus Maternus
(immagine tratta da Bouché-Leclerq - L’Astrologie Grecque)
Firmicus aggiunge inoltre quale postilla che alcuni (autori) desiderando trattare questo
argomento con maggior profondità assegnarono a ciascun decano tre divinità, che vollero
chiamare munifices cioè leiturgoí, in modo che in ogni segno se ne possono trovare nove. A
questi nove leiturgoí, che sono fissi per ogni segno, attribuiscono il potere infinito delle
divinità: accidenti, sofferenze, malattie ed altro ancora. Ritroviamo questa antica
sottodivisione dei decani nei navamsas degli indù, per i quali ogni segno è diviso in nove parti
eguali.
Nel ventiduesimo capitolo del quarto libro (De vacantibus locis et plenis) il Nostro
riprende nuovamente l’argomento, essendosi deciso – dice – a rivelare i venerabili segreti
della dottrina, che gli antichi volutamente avevano avvolto nell’oscurità: richiamandosi
all’autorità dell’egiziano Nechepso spiega che ogni decano non esplica in pari modo la
propria potenza divina in ogni singolo grado che gli appartiene. Il numen agisce in verità
soltanto in alcune parti, altre sono vuote e l’avere il Sole o la Luna o meglio ancora più
pianeti in parti piene in genitura è garanzia di ogni genere di felicità. Averli in parti vuote
condanna alla miseria e all’infelicità. Lo stesso vale per il grado ascendente e per il Medio
Cielo. Segue l’elenco di queste parti con il nome del nume del decano segno per segno per un
totale di 205 gradi pieni e 155 vuoti e il capitolo si conclude con l’affermazione che il famoso
Petosiride si occupò di questa materia in modo poco rilevante, non perché non la conoscesse,
ma perché non aveva voluto insegnarla.
Fig. 7: I Decani: partes vacue et plenae secondo Firmicus Maternus
(immagine tratta da Bouché-Leclerq – L’Astrologie Grecque)
In questo sistema non vi è traccia di pianeti e i decani portano nomi egizi: si tratta di nomi
distorti dal passaggio dal demotico al greco e dal greco al latino, e forse dagli errori dei
copisti. In Fig. 7 si può vedere come tali nomi abbiano subito varianti in altri autori. I gradi
pieni o favorevoli e i gradi vuoti o sfavorevoli, sono all'origine dei gradi luminosi ed oscuri
che si ritrovano negli astrologi arabi.
A partire dal quinto capitolo dell'ottavo libro (Apotelesma Sherae Barbaricae) fino
al diciassettesimo si parla invece delle stelle fisse delle costellazioni non zodiacali;
sfortunatamente mancano oltre 50 gradi per una lacuna nel testo latino. Queste stelle secondo
Firmicus, son poste in regioni vicine ai segni e con essi sorgono e tramontano con ordine
immutato ed hanno un nome tratto da vecchie favole. Ne parlarono già il poeta greco Arato e
Cesare e Tullio (22), ma non con l’intento di fornire informazioni di natura astrologica, cosa
che si ripromette di fare il Nostro. Manilius non viene citato, ma l’elenco delle stelle ed il loro
effetto ricalca sostanzialmente quanto questi aveva esposto nel libro quinto
dell’Astronomicon.
Intorno all'anno 346, mentre lavorava alla Mathesis, Firmico, che in circostanze di cui
si ignorano cause, luogo e tempo si era convertito al Cristianesimo, scrisse il De errore
profanarum religionum, opera che contiene un forte attacco ai culti orientali ed al paganesimo
e che è sopravvissuta in un singolo e lacunoso manoscritto. In essa l'astrologia tuttavia non
viene mai nominata e diversa fu la fortuna della Mathesis, che ci è giunta in numerosi
esemplari.
Fonti figurative
Ci piace in questo viaggio verso Palazzo Schifanoia citare anche alcune delle
numerose fonti figurative sui Decani: ecco le tavolette di Grand.
Fig. 8: Tavoletta d’avorio proveniente da Grand (Vosges) cm. 28,2 x 19,4.
Musée des Antiquités Nationales (Saint-German-en-Laye)
Grand si trova in Lorena ed è un villaggio il cui nome è una corruzione di Grannus, il nome
del dio celtico o gallico identificabile con Apollo. Lì sorgeva un santuario gallo-romano
dedicato appunto a questo dio guaritore, che includeva bagni, giardini, un tempio, una basilica
ed un anfiteatro. La costruzione più vecchia risale al I° sec. d.C., ma aggiunte e restauri
vennero effettuati più tardi e nel IV secolo era ancora in piena attività. Era meta di pellegrini
in cerca di cure ai propri problemi di natura medica e di consigli da parte del dio. Le Tavolette
vennero trovate sul fondo di un pozzo nel 1967. Erano state fatte, deliberatamente e
metodicamente, a pezzi (furono trovati 188 frammenti) nell’antichità. Si tratta di quattro
tavolette che formano due dittici simili tra loro. La Fig. 8 mostra uno dei due. Nel cerchio più
esterno troviamo i nomi dei trentasei decani, scritti in greco; seguono le loro immagini; poi
l’elenco dei termini o confini egizi; poi ancora uno Zodiaco greco. Al centro i busti del Sole e
della Luna. Ai lati immagini dei quattro venti in forme egizianeggianti.
Altro spettacolare esempio di fonte figurativa è la cosiddetta Tabula o Planisp
haerium
Bianchini (Fig. 9).
Fig. 9: Tabula o Planisphaerium Bianchini - Parigi, Museo del Louvre.
Immagine tratta da l' Origine de tous les cultes ou religion universelle
di Charles-Francois Dupuis (Paris 1795)
Si tratta di una tavola di marmo di incerta datazione, probabilmente del II° /III° sec. d.C. che
rappresentava la Sphaera Barbarica, trovata nel 1705 in numerosi frammenti sull’Aventino a
Roma e donata dall’antiquario Francesco Bianchini all’Accademia Francese. Mostra cinque
cerchi concentrici, quattro dei quali divisi in settori da linee. Nel primo circolo sono
raffigurati i dodici animali del Dodecahōros, lo schema che associava ad ogni segno dello
zodiaco greco una costellazione egiziana, non necessariamente zodiacale; nel secondo e nel
terzo due Zodiaci greci perfettamente eguali; ci sono poi i termini o confini, ancora una volta
quelli egizi; l’ultimo cerchio mostra i decani, senza il nome, ma sovrastati ognuno dal dio
planetario che li governa. Questi dei vanno da Saturno alla Luna, dal più ponderosus al più
levis insomma, sono i prosōpa o facies e recano ognuno un proprio segno distintivo: Saturno
una falce, Giove uno scettro, Marte una lancia, il Sole dei raggi, Venere uno specchio,
Mercurio un caduceo e la Luna una mezzaluna. Ai quattro angoli ancora una volta le teste
alate dei venti principali. Nel centro invece della Tabula c’è il serpente che avvolge con le
proprie spire due orse: raffigurazione canonica del polo dell’eclittica, che non è soggetto
come il polo celeste Nord allo spostamento precessionale e cade nella Costellazione del
Dragone, separando Ursa Major da Ursa Minor (Fig. 10).
Si è propensi a credere che queste tavole, come le altre della specie, servissero agli
astrologi durante il consulto (23) per marcare la posizione dei pianeti, mediante pietre che ne
recavano il nome o l’immagine. Era così possibile visualizzare senza sforzo le molteplici
relazioni tra segni, case e pianeti di un tema natale. Se poi le pietre eran fatte della sostanza
propria di ogni pianeta, questo permetteva all’astrologo di invocare le proprietà magiche della
pietra stessa.
Fig. 10: Posizioni del Polo Celeste Nord (i numeri indicano le date). Il PCN nel corso di un ciclo di precessione descrive un cerchio intorno al polo dell’eclittica.
L’ipotesi dell’uso di questi manufatti da parte di un astrologo in sede di consulto spiegherebbe
anche la presenza di due zodiaci identici nella Tabula Bianchini: essi avrebbero avuto la
funzione di permettere, in caso di sinastria, un esame simultaneo della posizione dei pianeti
nel tema di due coniugi, di due amici o nemici etc.
Lo scenario storico
Ma prima di andare avanti nella nostra esposizione occorre gettare un’occhiata fugace
agli avvenimenti storici e culturali di cui è stata protagonista l’οἰκουμένη γή a partire dalla
nascita degli Imperi Romani d’Occidente e d’Oriente, in seguito alla morte dell’imperatote
Teodosio I (395 d.C.). Questi aveva deciso che eredi degli immensi territori dell’Impero
fossero i due figli Arcadio, cui assegnò l’Oriente ed Onorio, cui destinò invece l’Occidente.
Questa divisione nata al fine di potersi meglio difendere dai barbari diede luogo col tempo a
due entità separate che non si sarebbero più riunite. L’Impero d’Occidente ebbe vita breve:
già nel 476 d.C. il re degli Eruli Odoacre depose Romolo Augustolo, l’ultimo cesare; miglior
fortuna ebbe quello d’Oriente, che durò sino alla conquista di Costantinopoli nel 1543 da
parte dei Turchi ottomani guidati da Maometto II.
Nell’Impero d’Oriente il greco divenne lingua ufficiale al posto del latino nel 610 d.C.,
anno dell’ascesa al trono di Eraclio I di Bisanzio: questi assunse il titolo imperiale di basileus,
al posto di quello di augustus usato fino a quel momento e diede inizio al periodo cosiddetto
bizantino.
Quando Odoacre depose Romolo Augustolo rimise le insegne dell’Impero
d’Occidente a Zenone, imperatore d’Oriente e lo riconobbe unico sovrano dell’intero orbe
romano; di fatto fu acclamato re dai barbari che lo avevano sostenuto e divenne il primo
sovrano dell’Italia post-romana. Iniziava così per l’Europa il Medioevo, un periodo che
sarebbe terminato per ciascuno stato in date diverse e che vide il sorgere di una nuova civiltà
latino-germanica ed il fiorire di nuovi regni.
Questo quindi lo scenario storico nel quale ci muoveremo.
Rhetoriosz
Torniamo dunque alle fonti scritte sui decani per parlare di Rhetorios, l’ultimo grande
astrologo del periodo classico. Originario dell’Egitto visse probabilmente nel sesto/settimo
secolo d.C. (quando l’Egitto era quindi parte dell’Impero Romano d’Oriente ed era già
iniziato il periodo bizantino) e scrisse in greco un compendio (una sorta di Tesoro) di tutta
l’arte astrologica, del quale abbiamo solo alcuni excerpta (24) e parecchie versioni tardobizantine.
Le tecniche descritte sono quelle degli autori ellenistici che lo hanno preceduto
(Antioco di Atene, Vettio Valente).
Nel CCAG (Parte VII pagg. 192-213) Franz Boll riporta e commenta gli Excerpta
Rhetorii Aegyptii ex Teucro Babylonio de duodecim signis, una ricca descrizione delle
caratteristiche dei dodici segni, comprensiva delle costellazioni che consorgono con i decani e
delle peculiarità di coloro che sotto di essi nascono. La fonte è il nostro Teucro, anche se è
indubbio (come nota il Boll, l.c.) che Rhetorios avesse mescolato alle cose tratte da questo
autore non poche provenienti da altri. Si tratta di una ventina di pagine, tutto sommato di
agevole comprensione per chi voglia leggerle o tradurle; l’autore inizia con l’affermazione
canonica che il circolo dello Zodiaco si muove obliquamente, recando dodici parti chiamate
zόdia, la prima delle quali è l’Ariete. Prosegue poi enumerando le qualità di questo primo
segno: maschile, tropico, primaverile, equinoziale, ascendente, quadrupede etc. e le sue
dignità; descrive poi i tre decani: “Nel primo decano sorgono Atena e la coda della Balena e
la terza del Deltotos (Triangulum) ed il Cinocefalo che porta le fiaccole e la testa del Gatto
del dodecahōros; col secondo decano si levano Andromeda, e la parte centrale della Balena e
la Gorgone e la spada falcata di Perseo e la parte centrale del dodecahōros; col terzo decano
si levano Cassiopea collocata sul trono e Perseo a testa in giù e la testa della Balena e la
parte restante del Deltotos e la coda del Gatto del dodecahōros; e il primo decano ha il volto
di Marte; il secondo del Sole; il terzo di Venere; sorge qui una stella brillante al grado 3 e 50
m. all’estremità del Fiume, umida, di prima grandezza, natura commista Giove e Venere ...”.
Seguono poi i confini, l’enumerazione delle regioni assegnate secondo Tolemeo, delle zone
del corpo governate, delle malattie collegate, per chiudere poi con le caratteristiche dei nati
sotto ogni singolo decano.
Analoga trattazione è riservata ai restanti 11 segni. Concludono gli Excerpta poche
righe che il Boll dubita appartengano a Rhetorios.
A questo autore va il merito di aver costituito un ponte tra l’astrologia bizantina e
quella araba e medievale: David Pingree (25) ci mostra come il suo compendio fu utilizzato e
spesso rivisto da Theophilus di Edessa tra il 765 e il 775, che lo rese disponibile a
Masha'allah, suo collega alla corte Abbaside di Baġdād. L’astrologo maronita tradusse infatti
in siriano ed in persiano anche parecchie opere greche di astronomia e di medicina. Un
manoscritto del compendio di Rhetorios fu, a quel che sembra, portato a Bisanzio da un
allievo di Theophilus, Stephanus, nel 790 ca.; da questo archetipo discendono le numerose
epitomi e rifacimenti di porzioni di questo testo, alcune delle quali passarono per le mani di
Demophilus nel 1000 ca.
L’Islam
Se in Occidente quindi, con l’inizio del Medioevo la cultura greco-romana e con essa
l’astrologia avevano subito una tragica battuta d’arresto, le arti e le scienze continuavano ad
essere coltivate in Oriente. Nel VII secolo a Costantinopoli, in Siria e soprattutto in Persia ed
in India, veniva studiata l’astronomia e con essa ovviamente l’astrologia.
A questi paesi si aggiunse l’Islam: i popoli sui quali si estese la dominazione araba tra
il VII e il IX secolo (Greci, Copti, Siriani, Persiani, Indiani) possedevano tutti una propria
tradizione astronomica ed un loro modo di compiere predizioni dai fenomeni celesti e i primi
astronomi musulmani (VIII e IX secolo) operarono quindi con grande eclettismo.
Una svolta determinante si ebbe però con la costruzione, all’apice della potenza
Abbaside, sotto il califfato di al-Ma’mūn, di due grandi osservatorii, uno a Baġdād, l’altro
presso Damasco. Come ricorda Giuseppe Bezza (26), sotto la direzione di Yaḥyā ibn Abī al-
Manṣu¯ r iniziò un intenso lavoro di verifica dei dati fondamentali dell’Almagesto di Tolemeo,
che vedeva in quegli anni (827-828) una terza versione araba dall’originale greco ad opera di
Ḥajjāj ibn Yūsuf ibn Maṭar. Una prima traduzione dal greco in arabo dell’Almagesto era già
stata compiuta circa un paio di generazioni prima, ma per la sua difficoltà non aveva retto alla
concorrenza delle opere assai più pratiche all’uso di origine indiana e persiana e si era imposta
solo più tardi, quando la preparazione matematica dei Musulmani divenne maggiore. Le
osservazioni condussero alla redazione del Zi¯ j al-mumtaḥan (Tavole verificate), alla
determinazione della nuova obliquità dell’eclittica, a una misurazione più precisa della
precessione degli equinozi e della durata dell’anno tropico e, infine, alla scoperta del moto
dell’apogeo solare, che Tolemeo aveva ritenuto immobile. Contemporaneamente, Ḥabaš al-
Ḥa¯ sib (“il calcolatore”), introdusse nel suo Zi¯ j al-dimasˇqi¯ il seno, il coseno e la tangente
in sostituzione della corda d’arco. Il culmine di questo progresso astronomico verrà raggiunto
tra la fine del IX e l’inizio del X secolo, quando la lingua araba potrà ormai esprimere con
compiutezza le argomentazioni scientifiche dell’astronomia. Nasce così una seconda
generazione di astrologi che si basano per le proprie previsioni sull’interpretazione
matematica dei fenomeni. L’astrologia, pur se non può pretendere di essere scienza, riesce
così a collocarsi all’interno delle scienze, e questo non avrebbe potuto e non può avvenire se
non attraverso lo status di arte che procede, nelle sue deduzioni, con un metodo che è il
metodo medesimo della scienza.
Nel periodo in cui le scienze, in Islam, si avviano alla loro massima fioritura vive ed
opera Ja'far ibn Muḥammad Abū Ma'shar al-Balkhī (Balkh, Afghanistan 787 - al-Wasit, Iraq
886), conosciuto anche come al-Falaki o Albumasar, matematico, astronomo, astrologo e
filosofo ed autore a Baġdād nel 848 d.C. dell’Introductorium majus in Astronomiam (titolo
originale Kitab al-mudkhal al-kabir ila 'ilm ahkam an-nujjum). L’opera fu tradotta in latino
nel 1133 da Giovanni di Siviglia (Johannes Hispalensis o Hispaniensis) ed anche, in forma
abbreviata e più letterale, nel 1140 da Ermanno di Carinzia (Hermannus Dalmata, conosciuto
anche con i nomi di Sclavus Dalmata ed Hermannus Secundus). Di quest’opera, le cui
traduzioni diedero il via ad un periodo di straordinaria espansione tra il tardo Medioevo ed il
Rinascimento dell’interesse verso l’astrologia, lo stesso Albumasar scrisse tra il 1116 e il
1130 una versione ridotta, la Ysagoga minor, che fu tradotta da Adelardo di Bath col titolo
Ysagoga minor Iafaris mathematici in astronomiam.
Abu Ma‘shar, come la maggior parte degli astronomi arabi, mantenne strettamente
connessi l’aspetto astronomico o descrittivo e quello astrologico o divinatorio e, come già
Tolomeo, considerò quest’ultimo nella sua relazione con la filosofia, ovvero con la
cosmologia aristotelica. La dottrina della dipendenza di tutti i moti dal Primo Motore
attribuiva infatti alle sfere celesti un ruolo di mediazione che poté, nell’interpretazione
astrologica, essere assunto a fondamento della teoria dell’influenza degli astri sul mondo
sublunare; l’accostamento delle dottrine fisiche di Aristotele alle dottrine astronomiche e
astrologiche di Tolomeo aveva reso possibile inoltre attribuire all’astrologia una base
scientifica e integrarla nel sistema scolastico delle scienze.
Abu Ma‘shar è considerato inoltre uno dei maggiori astrologi per la sua teoria (esposta
nell’opera De magnis conjunctionibus) delle grandi congiunzioni secondo la quale vi sarebbe
una stretta connessione fra le reciproche posizioni dei pianeti e i grandi mutamenti nella storia
dell’umanità: crisi storiche decisive, quali i mutamenti dell’egemonia di popoli e di civiltà,
l’avvento o il tramonto di religioni, l’affermazione o il crollo di regni e imperi. La creazione
del mondo in particolare sarebbe avvenuta quando tutti e sette i pianeti erano in congiunzione
al primo grado dell’Ariete e la fine del mondo si verificherà quando tutti i pianeti si
troveranno all’ultimo grado dei Pesci. Scrisse anche De revolutionibus nativitatum, nel quale
espose i principi sui quali si fonda la procedura della rivoluzione degli anni
La traduzione della sua opera introdusse in occidente la fisica (quale investigazione
dei meccanismi della natura) aristotelica; prima di essa infatti nessuna delle opera specifiche
dello stagirita sulla filosofia della natura era conosciuta. E ne divenne quindi per gli studiosi
del 12mo secolo la fonte più importante.
Per le numerose e indubitabili testimonianze che si sono conservate, il contatto
dell’Islam con la Cristianità latina era cominciato, per così dire, già poco dopo la presenza
degli arabi nella Penisola Iberica, a metà del secolo VIII. A partire dal secolo IX gli europei
apparvero molto interessati alle conoscenze scientifiche che si stavano introducendo e
sviluppando in Andalusia. Alcune delle prime influenze della cultura mussulmana nell’ambito
cristiano ebbero luogo in discipline scientifiche quali la medicina, la geometria e
l’astronomia, con l’introduzione nel mondo cristiano medioevale dei progressi realizzati dagli
arabi in campi come la costruzione di strumenti astronomici, le tavole astronomiche e l’uso
della numerazione araba (27). Nel XII e nel XIII secolo, l’Occidente sentì bisogno di tradurre
testi scientifici arabi per colmare le proprie lacune culturali accedendo all’Almagesto di
Tolomeo, ai Libri naturales di Aristotele piuttosto che alle opere di Galeno proprio come
avevano fatto nel IX secolo gli studiosi dell’Islam. E si trovò di fronte anche ai risultati di una
tradizione di studio che aveva sviluppato, rifinito e modificato il sapere degli antichi dopo
averlo fuso con elementi provenienti da altre culture (in particolare da quelle indiana e
persiana). Radicale ad esempio era stata la sostituzione delle opere originali di Galeno con
nuovi testi sulla medicina, giacché ogni generazione di medici arabi aveva cercato di
migliorare l’opera dei propri predecessori. L’apertura del Mediterraneo ai latini attraverso la
conquista e il commercio apportarono i maggiori contributi. Non è una coincidenza che il
movimento di traduzione prese il via dopo la riconquista di Toledo, che aprì il cuore della
Spagna islamica (1085), la conquista normanna della Sicilia, con la sua popolazione greca e di
lingua araba (1072-91), e la caduta di Antiochia che svelò le culture islamica e greca del
Mediterraneo orientale (1098).
Nella Toledo espugnata da Alfonso VI di Castiglia era presente ad esempio una
comunità di intellettuali ebrei, cristiani e musulmani, che cooperavano all'opera di diffusione
della scienza greca nell’Occidente latino. Da questa comunità avrebbe avuto origine il celebre
collegio dei traduttori di Toledo, di cui fecero parte Avendauth, chiamato David Iuadaeus,
Gherardo da Cremona, Michele Scoto, Domenico Gundissalinus e molti altri. I mondi ebraico
e islamico condivisero insomma grazie a questi traduttori con la cristianità un sapere comune
sulla scienza e sulla filosofia; si era formato un commonwealth di studiosi che trascendeva i
confini politici e linguistici.
La descrizione dei decani è data da Abu Ma‘shar nel secondo capitolo (De natura
signorum) del sesto libro (Fig. 11) dell’Introductorium.
Fig. 11: Introductorium in astronomiam Albumasaris Abalachi octo continens libros partiales
Augustae Vindelicorum - Erhardi Ratdolt, 1489
Traduzione latina di Ermanno di Carinzia.
Liber sextus, Capitulum secundum De natura signorum
Segno per segno (28) vengono ricordati i decani e di ogni decano l’immagine consorgente secondo i persiani, secondo gli indiani e secondo i greci: ne risulta così una sorta di sinossi di facile consultazione delle tre sphaerae e l’opera di sincretismo iniziata da Teucro il Babilonio ne esce ulteriormente arricchita.
Fig. 12: La Vergine e i suoi decani.
Alfonso X El Sabio, Tratados de Magia y Astrologia
Roma, Biblioteca Vaticana, ms. Regin. Lat. 1283, fol. 9v (ca. 1280)
Non conosciamo per ora nessun manoscritto illustrato del testo originale di Abu Ma‘shar
ma abbiamo raffigurazioni di epoca posteriore: ad es. nel Reginense Latino 1283 (30) della
Biblioteca Vaticana (Fig. 12) ove le tre sfere vengono presentate in tre cerchi concentrici sui
fogli del Leone e della Vergine (nel cerchio più esterno quella indiana, nel secondo quella
babilonese-persiana ed egizia, in quello centrale quella di Tolemeo).
O il Manoscritto Latino 7330 della Bibliotheque Nationale de Paris (Liber
Astrologiae), nel quale ritroviamo, sotto lo pseudonimo di un certo Zothorus Zaparus
Fendulus, proprio il testo di Abu Ma' shar (nella traduzione di Ermanno di Carinzia). Qui le
costellazioni (Fig. 13) sono disposte su tre strisce: in alto quelle della sfera persiana, al centro
quelle indiane ed in basso quelle di Tolemeo (31).
Fig. 13: I paranatellonta del primo decano del Cancro.
Georgius Zothorus Zaparus Fendulus, Liber Astrologiae
Biblioteque Nationale, Ms. Lat. 7330, (ca. 1220-1240)
La sfera che Abu Ma‘shar definisce persica si basa in realtà su quella barbarica di Teuco.
trasmessa attraverso una traduzione persiana che i testi arabi attribuiscono ad un certo
Tinkalus (32) nome che potrebbe essere null’altro che la degenerazione del nome Teucro: per
quanto riguarda la sfera indica, egli avrebbe attinto al Brhaj-jataka, opera del famoso
astrologo indiano Vaharamihira, vissuto all'inizio del VI sec. d.C. (cfr. CCAG, 1.c. nella nota
26), che a sua volta si era basato su traduzioni sanscrite di autori ellenistici, che avevano reso
mediante contaminazioni con gli dei autoctoni le figure dei decani irriconoscibili; la sfera
graecanica è un rimaneggiamento delle 48 costellazioni che appare nel VII Libro
dell’Almagesto di Claudio Tolemeo.
In una parola la distanza tra questa raffigurazione del cielo e quella realmente
osservabile era divenuta incolmabile: l’elenco di Teucro, trasmesso nel tempo in maniera del
tutto acritica, si era sommato a figure arabe, indie e greche tanto fantastiche quanto inesistenti.
Abraham ibn Ezra, Pietro d’Abano
Di decani ci parla inoltre Abraham ibn Ezra (1.092 ca.-1.167) nel secondo capitolo del
Principio della Sapienza quando tratta delle caratteristiche dei dodici segni, ognuno dei quali
è diviso in tre facies; particolari immagini tratti dalle tre sfere ascendono con ciascuna di
queste ultime.
Era Abraham ibn Ezra un ebreo nato a Toledo, poeta, astrologo e filosofo. Dal 1140 in
avanti, per motivi rimasti sconosciuti, divenne un giramondo e scrisse durante il volontario
esilio le sue brillanti opere. Fu nel Nord Africa, in Italia, in Francia, a Londra.
Di cinque dei suoi trattati (Il principio della sapienza, Natività, Rivoluzioni, Elezioni
ed Interrogazioni) si conserva una traduzione dall’ebraico in francese (33): alla fine del
Principio della sapienza è detto che esso fu scritto da Obers de Montdidier sotto dettatura da
parte di Hagins l’Ebreo a casa di Henry Bate a Malines e finito il 22 dicembre 1273.
Una traduzione dal francese in latino di questi trattati fu fatta da Pietro d’Abano
(1250-1315) nell’opera Abrahe Auenaris Iudei astrologi peritissimi In re iudicali opera: ab
excellentissimo philosopho Petro de Abano post accuratam castigationem in latinum
traducta. (34): ed è leggibile assieme a quella di altri e cioè il Liber rationum, il Liber
luminarium et de cognizione diei cretici, tre Tractatus particulares nonché il De
consuetudinibus in judiciis astrorum it est centiloquium Bethen, probabilmente spurio. Il
Padovano chiude il Liber Introductorium o Principio della sapienza dichiarando di esserne il
traduttore in latino e di averlo trovato in gallico idiomate, in pluribus defectivum et aliquando
inordinate transpositum. L’anno riportato è il 1293. (35)
Fig. 14: Pietro d’Abano
Pietro figlio di Costanzo, nato ad Abano, donde il suo soprannome, conosciuto anche come
Petrus de Apono o Aponensis (Fig. 14) fu filosofo, astrologo e professore di medicina a
Padova. Accusato di eresia e di ateismo e di praticare la magia, fu condotto in giudizio due
volte dall’Inquisizione; assolto in un primo processo, morì in prigione prima della fine del
secondo. Giudicato tuttavia colpevole, si ordinò di esumarne il corpo e bruciarlo; ma avendo i
suoi amici segretamente rimosso il cadavere, l’Inquisizione dovè contentarsi di bruciarne
l’effigie. Il suo masterpiece è il Conciliator Differentiarum, quoe inter Philosophos et Medicos
Versantur, opera nella quale si poneva l’obiettivo di armonizzare le opinioni tra loro
divergenti dei medici e dei filosofi a lui antecedenti, riconciliando la medicina araba con la
filosofia naturale greca. Numerosi sono i passi nel Conciliator in cui si parla di astrologia (36)
e Pietro non si stanca di ribadire che nessuna cosa dovrebbe essere intrapresa senza il favore
degli astri. Lo stesso medico non dovrebbe operare se essi non sono propizi, anzi è da essi che
dovrebbe trarre risposte e pronostici, quando i sintomi del paziente sono ambigui. Il valente
astrologo poi, non solo può prevedere il futuro con considerevoli probabilità di successo, ma
potrebbe addirittura cambiarlo applicando a taluni oggetti le virtù occulte dei corpi celesti. La
strada per catturare e conservare l’influenza celeste passa attraverso delle immagini costruite
con riferimento alle costellazioni. L’operazione va fatta, si intende, a tempo debito e
l’amuleto così ricavato va vivificato nella giusta maniera. Le immagini dei 360 gradi dello
Zodiaco, ad ognuno dei quali sono dedicate poche parole in latino, ce le illustra invece nel De
signis celestibus eorumque significatione et potestate, opera che ci è giunta in un solo
esemplare, un manoscritto del XV secolo, conservato attualmente presso la
Bayerische Staatsbibliothek di Monaco di Baviera (37).
Le ritroveremo poi associate (in quanto ab excellentissimo viro Petro de Abano
elaboratae) nel 1488 a xilografie simboliche nell’Astrolobium planum in tabulis ascendens
continens qualibet hora atque minuto equationes domorum celi, moram nati in utero matris
cum quodam tractatu nativitarum utili ac ornato: necnon horas inequales pro quolibet
climate mundi (Augsburg, Erhard Ratdolt, 1488) del tedesco Johannes Angelus (1463-1512),
studioso umanista ed editore di testi latini di scrittori antichi. Si tratta di 360 figure all’interno
di oroscopi in forma quadrata; i singoli gradi son quelli dell’ascendente di ciascuna carta (le
cuspidi sono quelle per il 45° N con la domificazione di Alcabizio), cosicchè quest’ultima,
essendo in bianco, poteva esser copiata e riempita per essere usata per il giorno desiderato
(Fig. 15).
Fig. 15: L’Ariete, con i tre decani e primi due gradi ascendenti.
Astrolabium planum, Augsburg, E. Rathold, 1488
Ad ogni segno sono premesse inoltre le immagini dei tre decani, per un totale di 96 pagine di
illustrazioni; alle trecento sessanta immagini, una per grado, descritte da Pietro farà poi
riferimento anche Cornelius Agrippa von Nettesheim nel De occulta Philosophia (38).
I nomi dei due autori compaiono in seguito affiancati in un’opera stampata a Marburg
nel 1559, dal titolo Henrici Cornelii Agrippae Liber Quartus de Occulta Philosophia, seu de
Cerimoniis magicis, cui accesserunt Elementa magica Petri de Abano, Philosophi.
Entrambe le attribuzioni sembrano essere non autentiche: ad ogni modo siccome gli
Elementa magica o Heptameronz sono un grimoire contenente nomi, sigilli, formule e rituali
per invocare gli angeli dei sette giorni della settimana, l’autore dell’opera deve senz’altro
essersi rifatto agli scritti risalenti a Pietro d’Abano, che abbiamo visto citato in Agrippa a
proposito di immagini planetarie e zodiacali, cui dare vita quando si desidera raggiungere un
particolare obiettivo. Il tutto nel più puro rispetto della tradizione magica ermetico-egizia che
Pietro aveva certo appreso da fonti arabe, in primo luogo Picatrix, vero compendio di magia
cerimoniale, le cui fortune, cominciate all’epoca di Alfonso X El Sabio hanno resistito per
secoli presso tutti i grandi esoteristi (Fig.16). Il trattato arabo Ghâyat al-hakîm (Il fine del
Saggio), composto in Andalusia alla metà dell’XI secolo, fu tradotto in castigliano (versione
della quale restano frammenti) e poi in latino proprio alla corte di Alfonso X alla fine del
1250. Opera forse di Abû-l-Qâsim Maslama ibn Ahmad al-Faradi al-Hasib al-Qurtubi al-
Mayritî (950-1008) matematico, astronomo ed alchimista (nonché traduttore e commentatore
di Tolemeo), il cui soprannome Maslama, tradotto in castigliano con Picatriz, sarebbe si dice
all’origine del latino Picatrix. Sconosciuto l’originale arabo fino alla sua scoperta verso il
1920 da parte dell’orientalista e bibliotecario Wilhelm Printz (39).
L’occultista ha in Picatrix un vero vademecum - privo forse di esposizione
sistematica, ma ricco di fonti - della negromanzia e cioè di tutte quelle operazioni compiute
dall’uomo in cui sono totalmente coinvolti l’intendimento e lo spirito e in cui l’intendimento
accompagni, agevolando o provocando, le cose meravigliose che con essa vengono compiute
(incipit del 2° cap. I° Libro).
Fig. 16: Magic Circle
John William Waterhouse (1886)
Quattro i libri e nel secondo, ai capitoli undici e dodici vengono presentati le immagini dei
decani e i loro influssi: in ogni segno la facies è ascritta ad un pianeta, secondo le orbite che
abbiamo già visto, che ad essa conviene e nella quale ascende in una particolare forma.
Impossibile senza conoscere queste dinamiche costruire quel che i sapienti chiamano
talismano, da teslam “ciò che viola”, in quanto ogni operazione compiuta per mezzo di un
talismano è una forma di violenza che vince l’oggetto in funzione del quale il talismano è
stato realizzato (Libro I° l.c.).
Le radici stesse della magia affondano nel moto degli astri e lo scopo del saggio, la
pratica magica, richiede un duro e complesso percorso conoscitivo: non si può intervenire
infatti su quel che non si è compreso. Le immagini dei talismani per poter agire devono essere
messe in relazione - e nella giusta ora - con le erbe, le pietre, le suffumigazioni proprie della
divinità astrale cui ci si appella: solo così quest’ultima si porrà al servizio del Magus.
Magia astrale a Palazzo Schifanoia
A nessuno sfugge quindi che l’Occidente aveva finito col ricevere dall’India, attraverso gli
Arabi, il proprio patrimonio di credenze astrologiche, che già emigrato in Oriente, tornava in
veste orientale. Come è ovvio esso, nel corso di questo lungo viaggio, aveva accolto elementi
genuinamente orientali. Nel Rinascimento la magia e l’astrologia ottennero una grande dignità
e s’inquadrarono in una visione umanistica che poneva l’uomo al centro dell’universo.
Scrive Eugenio Garin: "Magia era visione della vita e del tutto e ritrovamento del linguaggio
universale, dei simboli e degli strumenti per dominare e indirizzare le forze della natura.
Astrologia era certezza dei legami fra le cose, dominio dei corpi celesti, anch’essi vivi con le
loro anime, e dominanti uomini e cose" (40). L'età rinascimentale è pervasa da una religiosità
naturale, Dio è nella natura che l'uomo vuole dominare ricorrendo al sapere o alla magia.
Questo atteggiamento permetteva anche di superare il determinismo astrologico: l’uomo che
conosca le leggi universali non si deve preoccupare di ciò che le stelle dicono se non per
approntare degli artifici volti ad annullarne gli influssi negativi.
Nel 1469-70 Borso d’Este diede l’ordine di affrescare il salone di rappresentanza di Palazzo
Schifanoia, una costruzione di Ferrara, eretta nel 1385 su commissione di Alberto d’Este, suo
antenato. Il nome, che letteralmente significa “che schiva la noia”, stava ad indicare che la
dimora era destinata alla delizia ed allo svago, ad allontanare insomma il tedio degli impegni
di governo.
Fig. 17: Panoramica del Salone dei Mesi (lunghezza 24 m., larghezza 11 m., altezza 7,5 m.)
Palazzo Schifanoia, Ferrara
Fu ingaggiato un nutrito gruppo di artisti (la cosiddetta "officina ferrarese") che eseguì i lavori
con straordinaria rapidità; gli affreschi dovevano celebrare infatti l'investitura, da parte di
Papa Paolo II, di Borso a duca di Ferrara, programmata all'inizio del 1471. Il ciclo pittorico
trae il nome di Salone dei Mesi dalla personificazione dei mesi dell’anno, per ognuno dei
quali vennero raffigurati nella fascia superiore il trionfo di un dio dell’Olimpo (41), in quella
mediana un segno dello Zodiaco accompagnato dai tre decani ed in quella inferiore scene
tratte dalla vita di corte (Fig. 17). Ci sono pervenuti solo i mesi da Marzo a Settembre (più un
frammento del mese di Dicembre), leggibili in senso antiorario. Il palazzo infatti dopo vari
passaggi ereditari e varie vicissitudini fu affittato all’inizio del XVIII° secolo ed adibito a
manifattura di tabacchi; gli affreschi, coperti con strati di intonaco rividero la luce solo più di
cento anni dopo.
Dotto ispiratore e supervisore di questo ciclo fu - come sostenne l’iconologo Aby
Warburg (Fig. 18) nel 1912 durante una conferenza (42) al X° Congresso internazionale di
Storia dell’Arte a Roma - Pellegrino Prisciani, bibliotecario, storiografo, sovraintendente alle
arti di corte, nonché professore di astronomia all'Università di Ferrara. Questi era infatti anche
astrologo e si appoggiò al singolare trinomio di eruditi costituito da Manilius, Abu Ma‘shar e
Pietro d’Abano per la decorazione della sala, che nel rappresentare come le divinità
planetarie, attraverso lo Zodiaco irradino il proprio influsso sulla vita di corte, doveva
divenire una sorta di grande talismano murale. Aby Warburg (1866-1929) fu il primo a
cogliere il significato astrologico degli affreschi, cosa che gli era riuscita grazie alla lettura di
Sphaera del Boll; ricostruì durante la citata conferenza (che suscitò non poche perplessità tra
gli addetti ai lavori) la singolare migrazione della Sphaera Barbarica da Teucro - attraverso la
Grecia, l’Asia Minore, l’Egitto, la Mesopotamia, l’Arabia e la Spagna - sino a Ferrara, avendo
come costante punto d’orientamento il primo decano dell’Ariete, il vir niger (Fig. 19), nel
quale vide la costellazione di Perseo e di cui, egli che aveva definito l’astrologia un’oscura
superstizione, aveva finito col tenere una foto sul suo tavolo come talismano, dopo un lungo
periodo di degenza a causa della sua malattia mentale.
Fig. 18: Aby Moritz Warburg
Dal 1912 in avanti sui decani di Palazzo Schifanoia (che nel 1898 è divenuto sede di Museo) si sono pronunciati in molti (43) e non é il caso, non essendo studiosi di storia dell’arte, di aggiungere alcuna osservazione. Ci piace ricordare invece che Warburg nella citata conferenza tenne a precisare ai compagni di studi che il tentativo da lui compiuto di decifrare l’enigma figurato del Salone dei Mesi non voleva rimanere fine a sè stesso, bensì costituire un’arringa a favore di un ampliamento metodologico dei confini tematici e geografici della loro disciplina. Non a caso fu uno dei padri dell’iconologia e cioè di quella branca della storia dell'arte che si occupa di ricercare la spiegazione delle immagini, dei simboli e delle figure allegoriche dell'arte stessa. Nostro intento invece, con questa relazione, era ripercorrere il suo cammino in chiave più squisitamente astrologica, in difesa della nostra disciplina per dimostrare come ogni volta che si cerchi di cacciarla fuori dalla porta, essa rientri dalla finestra. Troppi infatti sono stati nei secoli i legami con altri campi del sapere e con altre manifestazioni dell’ingegno umano.
Fig. 19: Decano di sinistra del mese di marzo. Affresco eseguito da Francesco del Cossa. Palazzo Schifanoia, Palazzo dei Mesi.
Vi sono state continue interazioni tra astronomia, letteratura, arte, medicina ed astrologia e
non ha senso separarle e contrapporle, come fanno taluni quando affermano ad esempio, che il
Tolemeo astronomo autore dell’Almagesto sia diverso dal Tolemeo astrologo autore della
Tetrabiblos.
Del cielo e dei moti degli astri si possono dare interpretazioni diverse, ma non
necessariamente antagoniste e tocca anche a chi studia, da astrologo, la storia della nostra
disciplina non cessare di porlo in rilievo. E perchè l’astrologia riacquisti la dignità che le
compete occorre che rigorosi ne siano i metodi e l’applicazione. Vero è anche che con gli
enigmatici decani di Palazzo Schifanoia siamo alla fine di un percorso che di astrologico ha
più poco, avendo perso ogni riferimento con l’astronomia, e che sa invece più di magia
astrale; ma come ebbe a dire proprio Warburg (44) “logica e magia fioriscono sul medesimo
stelo”.
Genova, 15 febbraio 2009
lucia.bellizia@tin.it
www.apotelesma.it
Note
(1) ‘Ricerca 90 N° 76 dell’ottobre 2008. Rimandiamo il lettore a questo studio per una più accurata
descrizione dei cataloghi stellari e della teoria geocentrica. La relazione fu presentata l’11 ottobre 2008 a
Genova al Convegno inaugurale di Apotélesma ed è leggibile anche in www.apotelesma.it, sito ufficiale
dell’Associazione.
(2) La classificazione partiva dalle più brillanti (magnitudo + 1) ed andava fino a quelle appena discernibili
(magnitudo + 6).
(3) Vedi Lucia Bellizia, articolo citato nella nota (1).
(4) Leipzig, 1903 (rist. Hildesheim 1967).
(5) Porphyrii Philosophi Introductio in Claudii Ptolemaei opus de effectibus astrorum (edidit H. Wolf graece
et latine), Basileae 1559 (pag. 199-120);Porphyrii Philosophi Introductio in Tetrabiblum Ptolemaei,
CCAG, V, 4 (pp. 221); Psellus: Perì paradóxon avagnosmáton- Ed. Westermann, Paradoxográfoi,
Braunschweig, 1839, p. 147, 21).
(6) Parisinus 2420, fol. 48 e 108.
(7) R.E.V.A., 1 (1934), 1132-34
(8) International Journal of the Classical Tradition (IJCT) Vol. I, Number 2 / September 1994, pag. 45.
(9) Paris 1899, Ernest Leroux, Éditeur. (Cap. VII, $ II - Les Décans)
(10) Che è stato inoltre oggetto di uno studio ponderoso da paarte di Wilhelm Gundel, che ne raccolse ed
interpretò le fonti scritte e raffigurative in Dekane und Dekansternbilder. Ein Betrag zur Geschichte der
Sternbider der Kulturvölker. - Leipzig 1936
(11) Per quanto esposto sui decani quali “stars-clock” cfr. Otto Neugebauer e Richard Parker Egyptian
Astronomical Texts Volume 3 : Decans, Planets, Constellations and Zodiacs, Brown University Press,
Providence, Rhode Island, 1969.
(12) Cfr. Bouché-Leclerq - L’Astrologie Grecque, Paris 1899. Cap. VII $ II.
(13) Si tratta di Tolomeo VIII Evergete II, detto Physcon “pancione”, faraone del 145 al 117 a.C. Il testo è
riportato in Bouché Leclerq, op. cit. pag. 222.
(14) Franz Boll – Carl Bezold, Interpretazione e fede negli astri, Sillabe 1999, pag. 52 e segg.
(15) Vedi Boll – Bezold, luogo citato alla nota 14; CCAG VII, pag. 180; Giuseppe Bezza, Nechepso e
Petosiride, in www.cieloeterra.it.
(16) L’editio princeps dell’Astronomicon fu preparata dall’astronomo Regiomontanus, usando manoscritti del
tutto corrotti (Poggio Bracciolini era solito ricopiare i manoscritti che rinveniva pur non essendo un
valido amanuense e spedire dietro compenso le sue copie frettolose in Italia. Provvedeva poi a distruggere
gli originali in modo da impedire che altri potessero intaccare il suo "monopolio") e pubblicata a
Norimberga nel 1473. Il testo fu edito criticamente da Joseph Justus Scaliger (prima edizione Parigi 1579
e seconda edizione, collazionata con manoscritti migliori, Leida 1600).
(17) Cfr. N. E. Lemaire - Poetae Latini minores quae notis veteribus ac novis illustravit. sextum, De re
astronomica / Ciceronis. Et Germanici Carmina ex Arato translata. Item M. Manilii Astronomicon, libri
quinque / ex recensione Jos. Scaligeri. Paris, 1837. Vol. VI pag. 193.
(18) N. E. Lemaire op. cit. pag.
(19) Cfr. Bouché-Leclerq, op. cit. pag. 218.
(20) Iulii Firmici Materni, Matheseos Libri VIII, ediderunt W. Kroll et F. Skutsch in operis societatem
assumpto K. Ziegler, Lipsiae in aedibus B.G. Teubneri, 1913.
(21) Cfr. Bouché-Leclerq - L’Astrologie Grecque, Paris 1899. Cap. VII $ II pag. 227 nota 3.
(22) Da intendersi il generale Cesare Germanico, autore tra il 14 e il 19 d.C. di una libera versione in latino del
I° libro dei Phaenomena di Arato e M. Tullio Cicerone, autore degli Aratea, libera traduzione anch’essa
della stessa opera, risalente all’ 80 a.C.
(23) Cfr. J. Evans, The astrologer’s apparatus: a picture of professional practice in Greco-roman Egypt,
Journal for the History of Astronomy, Vol. 35, Part 1, N° 118, pagg. 1 – 44 (2004).
(24) Cfr. CCAG VIII parte I pagg. 221 – 248 ex Cod. 10 (Paris. 2506); CCAG VIII parte IV pagg. 155 e segg.
ex Cod. 82 (Paris. 2425); etc.
(25) David Pingree - From Alexandria to Baġdād to Byzantium. The Transmission of Astrology. IJCT 8
(2001-2002), pp. 3-37.
(26) Cfr. Giuseppe Bezza - Caratteri propri ed acquisiti dell’astrologia araba (conferenza tenuta nel 1999 alla
sede di Roma dell'Is.I.A.O) in www.cieloeterra.it
(27) Charles Burnett - Medio Evo, quando l'Occidente voleva imparare dall'Oriente (testo letto dall’autore in
occasione della conferenza Al di là di Orientalismo e Occidentalismo, organizzata da Reset-Dialogues on
Civilizations e tenutasi al Cairo, in Egitto, dal 4 al 6 marzo 2006).
(28) In appendice al libro citato di Boll, Sphaera, è possibile leggere il testo in arabo con traduzione tedesca
dell’orientalista Karl Dyroff delle immagini consorgeniti con i trentasei decani; in CCAG, sempre edito
da F: Boll V, Parte1, pagg. 156 -169 è riportata una versione greca.
(29) Cfr. Fritz Saxl – La fede negli astri. Universale Bollati Boringhieri, 1985. Cap. 8, pag. 265 e segg.
(30) Si tratta di un compendio di Alfonso X El Sabio in castigliano nel quale confluiscono estratti di opere
magiche di derivazione giudaica (Libro de Raziel) o araba, tra cui la Gāyat-al-Hakīm (Picatrix in
Occidente), una delle fonti principali della magia astrale di origine orientale, che venuta in possesso di
Alfonso X fu da lui fatta tradurre dall’arabo in spagnolo da Yehudá ben Moshé verso il il 1256-1258),
ma anche degli estratti dell’Introductorium di Abu Ma‘shar. Cfr. Anna Caiozzo, Les images du ciel
d'orient au moyen âge, Presses Paris Sorbonne, 2003.
(31) Vi sono numerosi manoscritti, che coprono un arco di due secoli, a nome Zothorus Zaparus Fendulus. Il
7330 è il più antico.
(32) Questo nome potrebbe essere null’altro che la degenerazione del nome Teucro. Cfr. C.A. Nallino –
Tracce di opere greche giunte agli Arabi per trafila pehlevica, in A volume of Oriental Studies presented
to Professor E.G. Browne, Cambridge, 1922, pagg. 285-303.
(33) Cfr. Lynn Thorndike - History of Magic and experimental science, Kessinger Publishing, 2003, Book V
The thirteenth Century, Cap. LXX Peter of Abano, Appendice III.
(34) Venetiis : ex officina Petri Lichtenstein, 1507
(35) Anche gli altri trattati lo indicano come traduttore.
(36) Cfr. Lynn Torndike, l.c., pag. 890 e segg.
(37) Sono debitrice di questa informazione all’ottima Margherita Fiorello di Roma che mi ha segnalato
l’esistenza del manoscritto (che è inoltre scaricabile in rete all’indirizzo: http://daten.digitalesammlungen.
de/~db/0003/bsb00033078/images/index.html?id=00033078&fip=79.2.219.37&no=107&sei
te=330. ) Cfr. anche Graziella Federici Vescovini - Pietro d’Abano e gli affreschi astrologici del Palazzo
della Ragione di Padova, in Labyrinthos. Studi e ricerche sulle arti dal Medioevo al Barocco, 9 (1986),
p. 50-75.
(38) Cfr. Cornelio Agrippa von Nettesheim (1486-1553) De occulta philosophia (ristampa del 1983 Edizioni
Mediterranee Roma) Volume secondo, al Capitolo XXXVII “ Delle immagini degli aspetti zodiacali e dei
loro poteri e delle immagini extrazodiacali” (pag. 117 e segg.).
(39) Per una recente traduzione dal latino in italiano vedi Picatrix, a cura di Paolo Aldo Rossi, Ed. Mimesis,
2008.
(40) E. Garin, "Storia della filosofia italiana", vol. I, Torino 1966, p. 416
(41) Nell’ordine stabilito dall’Astronomicon di Manilius (Libro II, 439-447). Il poeta romano assegna la tutela
dei segni ai grandi dèi del pantheon greco-romano, accogliendo la tradizione che attribuisce loro i dodici
mesi dell’anno:
Lanigerum Pallas, Taurum Cytherea tuetur
formosos Phoebus Geminos; Cyllenie, Cancrum
Iuppiter, et cum matre deum regis ipse Leonem;
spicifera est Virgo Cereris fabricataque Libra
Vulcani; pugnax Mauorti Scorpios haeret;
uenantem Diana uirum, sed partis equinae
atque angusta fouet Capricorni sidera Uesta;
et Iouis aduerso Iunonis Aquarius astrum est
agnoscitque suos Neptunus in aequore Pisces.
[Traduzione: Pallade protegge il lanoso Ariete, Citerea il Toro, Febo i bei Gemelli; tu, o Cillenio, il
Cancro; e tu, o Giove, con la madre degli dèi (Cibele), il Leone; la Vergine, portatrice di spighe,
appartiene a Cerere e la Bilancia a Vulcano, che l’ha forgiata; il bellicoso Scorpione è collegato a Marte.
Diana favorisce quel cacciatore (il Sagittario), in parte uomo e in parte cavallo, e Vesta le stelle anguste
(contratte dal gelo?) del Capricorno. Opposto a Giove si trova l’Acquario, che dipende da Giunone; e
Nettuno riconosce come suoi i Pesci, nelle sue stesse acque].
(42) Aby Warburg - Italienische Kunst und internationale Astrologie im Palazzo Schifanoja zu Ferrara,
tradotto e pubblicato in Arte e astrologia nel Palazzo Schifanoia di Ferrara, Abscondita, 2006.
(43) Fritz Saxl – La fede negli astri, Universale Bollati Boringhieri, 1985 e 2007. Ed anche Marco Bertozzi –
La tirannia degli astri, Sillabe 1999.
(44) Aby Warburg – Divinazione antica pagana in testi ed immagini dell’età di Lutero (1920), traduzione
italiana in La Rinascita del paganesimo antico (Firenze 1966), pag. 315.