ETRUSCHI
di Annarita Allegrucci
Gli Etruschi, un mistero da svelare o svelato?
Probabili precursori del genere umano e custodi dei segreti della scienza, delle arti e della divinazione.
La tradizione vede gli Etruschi ipoteticamente connessi con la leggendaria civiltà di Atlantide in quanto custodi di un sapere unico, perduto nelle trame dei secoli e in parte ereditato da Greci e Romani.
Si parla degli Etruschi come di una sorta di civiltà di Atlantide, custode delle arti divine e magiche, della medicina, della scienza, dell’arte e della poesia.
Coltivazioni di vite ed ulivo, tecniche agrarie, opere letterarie apprezzate in tutto il Mediterraneo, commerci vivaci, opere pittoriche e scultoree realizzate con materiali e tecniche uniche, che perfino le moderne tecniche di laboratorio stentano a riprodurre. Pitture vascolari, specchi bronzei, tombe e loculi affrescati. Qualche reperto biografico dovrà pur essere conservato, disperso in qualche archivio storico.
Sulla provenienza e origine degli Etruschi esistono almeno quattro ipotesi:
1. Tra il XI ed il IX secolo a.C. un nuovo popolo arrivò da est via mare nell'Italia centrale.
2. Gli Etruschi altro non erano che ... i Pelasgi migrati e poi ritornati in Etruria
3. Tra il 2000 d il 1000 a.C. un nuovo popolo scese in Italia dal nord Europa
4. Gli Etruschi altro non erano che ... i Villanoviani / Pelasgi poi evoluti in Etruschi
Secondo Erodoto
Sotto il regno di Atis, figlio di Manes, tutta la Lidia sarebbe stata afflitta da una grave carestia.
Per diciotto anni vissero in questo modo. Alla fine, Re Atis divise il suo popolo in due gruppi: uno sarebbe rimasto in Lidia, mentre l'altro sarebbe dovuto andar via. A capo del gruppo che avrebbe abbandonato la Lidia pose suo figlio Tirreno. Dopo aver costeggiato il Mediterraneo e aver visitato molti popoli, giunsero nel paese degli Umbri e vi costruirono varie città in cui tuttora abitano.
• Arezzo (Arretium) - IX secolo a.C.
• Cerveteri (Kaisria o Kaisra - Caere - Chisra) - IX secolo a.C.
• Chiusi (Clusium o Charmas) - VIII secolo a.C.
• Cortona (Crotone o Coritus o Corjtus) - VIII secolo a.C.
• Orvieto (Velzna o Volsinii Veteres) - VII secolo a.C.
• Perugia (Perusia) - VIII secolo a.C.
• Roselle (Rusel) - VII secolo a.C.
• Tarquinia (Tarch(u)na - Tarquinii) - IX secolo a.C.
• Veio (Vei) - IX secolo a.C.
• Vetulonia (Vetluna - Vetluna - Vetalu - Vatl) - VII secolo a.C.
• Vulci (Velcha) - IX secolo a.C.
• Volterra (Velathri) - VII secolo a.C.
Ognuna delle 12 città stato era guidata da un Re chiamato Lauchme o Luchme o Lauchume.
I Romani li chiamarono lucumones ovvero Lucumoni.
La teoria in base alla quale le dodici città erano associate tra loro e disposte sul territorio in base allo zodiaco.
La dodecapoli nasceva con la fondazione di un centro sacro e principale, riconosciuto come centro principale, religioso, politico e culturale nel quale i discendenti dell‘ethnos etrusco potevano ritrovare una propria identità e memoria collettiva; la fondazione e l‘orientazione di questo centro erano in armonia con la legge celeste e con il sacro suolo che dava rifugio, entro i suoi confini. Questo centro primigenio diveniva il centro di tutto, anche il centro del mondo, l'ombelico del sacro corpo di madre terra. Intorno ad esso nascevano successivamente dei centri ulteriori, che definivano la loro identità grazie alla particolare morfologia del loro territorio. Il nuovo insediamento prendeva nome da specifici segni naturali o sovrannaturali e grazie alla particolare orientazione verso il centro principale. La simbologia nella fondazione dei vari centri era quella zodiacale, poiché‘ lo zodiaco non era altro che la mappa della volta celeste, cioè il sempiterno modello della disposizione sacra degli astri, numi anch‘essi, come il Sole, la Luna e gli altri enti celesti. Le costellazioni furono associate ai principali animali sacri della terra: ariete, toro, cavallo (gemelli), granchio, essi stessi sacrali espressioni della Madre Terra e dei suoi variegati poteri.
Lo Zodiaco, che significa letteralmente cerchio di animali, fu un altro significativo aspetto delle nozze mistiche tra cielo e terra. Così il territorio veniva diviso in dodici fasce territoriali, ciascuna governata da un suo centro principale, la lucumonia. Tutte queste dodici regioni dipendevano dal centro primigenio che, in posizione centrale e polare, era soprattutto il punto di riferimento di un‘unione confederativa su basi spirituali, religiose e culturali, che non divenne mai unità politica. Questo spiega anche perché l‘Etruria si trovò politicamente divisa, di fronte all‘invasione romana, e dovette soccombere ineluttabilmente, perdendo le lucumonie ad una ad una, tanto queste erano isolate le une dalle altre e quindi facili prede delle legioni romane.
Il centro sacro dell‘Etruria fu il Fanum Voltumnae, il tempio del dio Voltumna, nella lucumonia di Volsinii (Bolsena), che corrispondeva anche al centro geografico dell‘antica Etruria. Quel tempio fu il maggiore sacrario del dio Veltha (Voltumna è la forma latina), il principale dio Tirrenico. Ma non si trattava di un semplice edificio templare, bensì di una vasta area consacrata, compresa all‘interno di un bosco sacro, il Lucus Aetruriae, che venne poi detto Selva Cimina.
(Cit. Giovanni Feo)
L‘autore non manca di documentare la sua tesi, facendo riferimento alle scoperte archeologiche per trovare conferma di quanto dice... e sempre fa riferimento ad un‘organizzazione simile della geografia sacra dell‘antica Grecia e dell‘Egitto, in cui da un centro principale si snodavano vari centri simbolici in relazione ad esso (il legame con forme greche per questa tesi di carattere religioso è evidente).
Feo indica fondamentali i ritrovamenti (monetazione, orientazione dei templi, necropoli, riti sacri, raffigurazioni ritrovate su vari oggetti o dipinte su pareti oppure statue, vasi, oggetti destinati ad un uso funerario e sacro) per dimostrare il carattere religioso di questa lega sacra:
“Considerando che il Fanum Voltumnae era situato presso la sponda orientale del lago di Bolsena, all‘incirca tra Montefiascone, Bolsena e Orvieto, si divida la circostante area tosco-laziale in 12 settori, in modo da ottenere un cerchio diviso in 12 parti uguali. Si può quindi osservare che: il settore meridionale comprendente Roma va a ricadere nel settore dei Gemelli, confermandoci la tradizione che indica Roma una fondazione etrusca, come il mito di Romolo e Remo chiaramente tramanda; la lucumonia di Tarquinia (Tarku), nei cui pressi erano situate le Terme Taurine, rientra nel segno del Toro; la cittadina di Sovana, in alta Maremma, si trova nel segno dell‘Acquario, e ciò sarebbe confermato dalle numerose raffigurazioni di sirene rinvenibili in loco, e la sirena corrispondeva anticamente al segno astrologico dell‘acquario, come è attestato dallo arcano maggiore dei tarocchi chiamato “Le Stelle“; Saturnia è nel segno dell‘acquario e Saturno ha uno speciale rapporto con quel segno; Talamone, sulla costa Tirrenica, è nel segno dei Pesci, e le monete etrusche ritrovate in loco recano effigiate un delfino e un tridente.“
La prima città della Dodecapoli a cadere sotto Roma, dopo 10 anni di assedio ovvero una piccola guerra di Troia italica, fu Veio nel 396 a.C.
Cerveteri cadde nel 353 a.C.
Volterra fu sconfitta dal Console Lucio Scipione Barbato nel 298 a.C.
Arezzo e Perugia dopo la battaglia di Pian di Sentino (Rapolano) del 295 a.C. passarono sotto l'influenza di Roma.
Roselle e Vetulonia furono sconfitte dal Console Postumio Megello nel 294 a. C.
Chiusi e Cortona (alleate con Vulci) si sottomisero a Roma dopo la sconfitta al lago di Vadimone presso Bassano in Teverina del 284 a. C.
Tarquinia fu sottomessa a Roma nel 281 a.C.
Vulci cadde nel 280 a.C. per opera del Console Tiberio Coruncanio.
Orvieto fu l'ultima delle città a cadere nel 264 a.C. per opera del Console Quinto Fabio Massimo (morto in battaglia) e del Console Marco Furio Flacco.
Lo stato federale Etrusco con la sua Dodecapoli non esisteva più e Roma, da lì a poco, sarebbe diventata la capitale del Mediterraneo e di tutto il mondo conosciuto.
Estensione territoriale e sviluppo dell'Etruria interna
In Tuscorum iure paene omnis Italia fuerat: quasi tutta l'Italia era stata sotto il dominio degli Etruschi, dice Catone (Servio, ad Aen., XI, 567); e Livio (I, 2; V, 33) insiste sulla potenza, sulla ricchezza, sulla fama degli Etruschi in terra e in mare dalle Alpi allo stretto di Messina. I dati archeologi ci ed epigrafici e le notizie di altre fonti storiche confermano il valore di queste tradizioni, pur limitandone la genericità e consentendo di chiarire con sufficiente approssimazione quali territori italiani furono propriamente abitati e quali sottomessi dagli Etruschi o in qualche modo da loro influenzati politicamente, economicamente o culturalmente.
Consideriamo anzitutto quella che siamo soliti denominare Etruria propria, compresa tra il Mare Tirreno, il corso del Tevere e il bacino dell' Amo, cioè l'Etruria storica costituente la Regione VII dell'Italia augustea. Ad essa appartengono le dodici città (dodecapolis) che secondo il canone tradizionale formavano la nazione etrusca. La tradizione antica ha accreditato presso gli storici moderni l'idea che questo territorio fosse la sede originaria della stirpe, dalla quale sarebbero partite le imprese marittime e le conquiste terrestri (verso il Lazio e la Campania e verso le zone transappenniniche).
Ciò che appare soprattutto interessante è il fatto che le città dell'Etruria interna si trovano disposte in qualche modo ad arco o a corona lungo una fascia approssimativamente corrispondente ai confini geografici dell'Etruria: da sud a nord, a breve distanza dalla riva destra del Tevere, Veio, Falerii (seppure di origini falisce), Volsinii (nella zona di confluenza del Paglia con il Tevere), Perugia; al margine dei monti confinanti con l'Umbria Cortona; lungo l'Arno Arezzo e Fiesole; né si escludono del tutto da questo sistema, benche meno periferiche, Chiusi e Volterra. Senza dubbio esiste un generale rapporto con le grandi vie fluviali. Ma non si può sfuggire all'impressione che nell'ubicazione delle città si configuri anche una sorta di delimitazione protettiva che in certo senso conferma l'idea di un'antica concezione unitaria del territorio etrusco.
La differenza principale tra gli Etruschi e le civiltà che seguirono è rappresentata primamente dall’organizzazione del potere. Nel caso degli Etruschi questo non era nelle mani del più forte, né del più ricco, né del più blasonato, ma del più saggio. Nel culto etrusco primeggiava una Grande Dea creatrice, la quale era venerata con servigi e rituali officiati da una rispettata casta femminile.
Un sacerdote-re e al suo fianco una sacerdotessa-regina presiedevano l’organizzazione gerarchica del potere. I Lucumoni erano i sacerdoti re che prima dei Romani erano degni di guidare e rappresentare il popolo. Prima che la civiltà progredisse verso forme più strutturate di gestione del potere, prima che scoprisse dunque la politica, al centro della vita comunitaria vi era la religione.
Quello che sembra però mancare a Greci e Romani è quel rispetto per il senso delle cose, che si perse dopo la civiltà Italica degli Etruschi. Il grosso limite dei popoli che seguiranno è stato infatti quello di legare al potere politico non tanto l’idea di ordine, quanto piuttosto quella di dominazione. Lo sfarzo, la lascivia, la tracotanza e la decadenza dei costumi prenderanno il sopravvento dopo gli Etruschi.
Gli Etruschi non pensarono a costruire città e roccaforti, non pensarono a elaborare sofisticati sistemi e macchinari per distruggersi, non pensarono a edificare grandi palazzi per l’ozio. Gli Etruschi si preoccuparono di edificare templi. Quando i primi Etruschi, discendenti dagli ancora più antichi Popoli Italici, giunsero al centro del Mediterraneo si preoccuparono di omaggiare la Madre Terra per quel dono meraviglioso. In essa riconobbero il principio femminile divinizzato nella sua funzione di creatrice della vita. La preoccupazione degli Etruschi, come anche degli Egizi, era quella di cullare i defunti, omaggiando con rispetto il loro viaggio verso l’aldilà. All’interno delle tombe etrusche possono ammirarsi affreschi policromi, straripanti di vitalismo e sacralità. Qui il senso sacro si sposa con un immortale amore per la vita. I Poemi Omerici, che vedono l’operato degli eroi greci costantemente influenzato dall’agire divino, sono figli anch’essi della civiltà arcaica degli Etruschi. Esemplare è la storia etrusca della fondazione di Roma che vede Tarkun guidato dalla Grande Dea alla consacrazione regale e a passare alla storia come Tarquinio Prisco: il primo re di Roma.
Sotto l'egemonia di Roma, la cultura e le tradizioni anche religiose Etrusche sopravvissero per almeno altri tre secoli, diciamo fino al I d.C., alla perdita di indipendenza.
Linguaggio
Contrariamente a quanto molti ancora suppongono, i documenti della lingua etrusca sono tutt’altro che ‘indecifrati’ o ‘indecifrabili’: scritti con un alfabeto di derivazione greca, fin dal secolo scorso si leggono senza nessuna particolare difficoltà; ma anche in precedenza, fatto salvo qualche dubbio relativo al singolo segno, l’epigrafia aveva rappresentato il capitolo forse più solido nell’intero panorama dell’etruscologia.
La scrittura procede normalmente da destra verso sinistra; assai più raramente, da sinistra a destra ovvero con andamento bustrofèdico, cioè alternato riga per riga. In epigrafi meno antiche si possono incontrare puntini di separazione tra le parole.
I pochissimi testi etruschi più complessi - un rituale scritto su un rotolo di tela poi utilizzato per avvolgere una mummia, ora al Museo di Zagabria; una tegola iscritta, proveniente da Capua, a Berlino; il Cippo di Perugia - suscitano invece gravi difficoltà nell’interpretazione, anche perché non si conoscono per il momento ampi documenti bilingui a carattere di traduzione letterale (del tipo della Stele di Rosetta).
Nella seguente tabella si confrontano gli alfabeti delle principali lingue del mondo classico:
Le Lamine di Pyrgi
Nel 1964, a Santa Severa, cittadina che sorge sull'antica Pyrgi, il porto di Caere, vennero alla luce, durante gli scavi diretti da Massimo Pallottino, tre lamine d'oro: su una era inciso un testo in lingua punica, sulle altre due un testo etrusco. Le lamine erano state accuratamente nascoste, all'epoca della distruzione del santuario, in una vasca scavata fra il tempio A ed il tempio B. Se è vero che il testo in lingua punica non presenta problemi insormontabili, nessuno ci dice che l'etrusco ne costituisca la traduzione. Possiamo solo comparare i nomi propri che figurano nei due testi. Ad esempio, nella lamina punica un personaggio è definito "re delle genti di Caere": ora, sappiamo che in quell'epoca la città non aveva re.
cioè
Traduzione: «Questo thesaurus e queste statuette sono divenuti di Giunone-Astarte. Avendo la protettrice della Città concesso a Thefario Velianio due [figli] da Cluvenia, (egli) ha donato a ciascun tempio ed al tesoriere offerte in terreni per i tre anni completi di questo Reggente, offerte in sale (?) per la presidenza del tempio di questa (Giunone) Dispensatrice di discendenti; ed a queste statue (siano) anni quanti (sono) gli astri!».
La Tavola di Cortona
La Tavola di Cortona, una lamina in bronzo con iscrizioni etrusche spezzata in otto parti (una mancante) e delle dimensioni di un foglio di carta da lettere, è il terzo testo etrusco per lunghezza. La Tavola è incisa su entrambe i lati con iscrizioni etrusche di elegante fattura realizzate con l’incisione a freddo o con la tecnica della cera perduta.
La Tabula Cortonensis è un manufatto in bronzo ritenuto dell'inizio del II secolo a.C. e ritrovato a Cortona in località Le Piagge nel 1992.
Vi è incisa un'iscrizione in lingua etrusca, la terza più lunga conosciuta, misura 28,5×45,8 cm ed è spessa circa 2–3 mm. La tavola sembra facesse parte di un archivio notarile privato, forse il tabularium posto nella parte più sacra della casa. Fu più tardi rotta in 8 pezzi (apparentemente per essere fusa e riutilizzata) di cui solo 7 sono stati ritrovati. La perdita dell'ottavo non è tuttavia considerata seria, dal momento che il pezzo era situato nell'estremità inferiore destra della tavola e si ritiene contenesse solo nomi di persona. Probabilmente l'ottavo pezzo andò perduto durante le vicissitudini che portarono alla frantumazione della tavola.
La faccia A della tavola contiene 32 righe di testo, mentre la faccia B ne contiene solo 8.
Si pensa che ad incidere la tavola siano stati due scribi, il primo autore delle righe 1-26 della faccia principale (faccia A) e dell'intera faccia opposta (faccia B), il secondo invece responsabile delle righe 27-32 della faccia A. Entrambi gli scribi usano un alfabeto particolare, proprio di Cortona, nel quale il segno per E retrogrado occorre in sillaba iniziale o finale per sostituire un antico dittongo.
Mummia di Zagabria
Il manoscritto della "Mummia di Zagabria" è un "liber linteus" eseguito a inchiostro con un pennello su di un drappo di lino. E' suddiviso in dodici riquadri rettangolari ognuno con 34 righe della scrittura. Il drappo veniva ripiegato "a fisarmonica" seguendo le linee verticali dei riquadri che funzionavano dunque come le pagine di un libro.
Attualmente si conserva al Museo Archeologico di Zagabria ma è stato ritrovato in Egitto, dove era stato "riciclato" tagliandolo orizzontalmente in lunghe strisce, che furono utilizzate come bende per una mummia.
Solo alcune delle strisce sono conservate, per cui il manoscritto ha grosse lacune. Il testo è in assoluto il più lungo tra quelli etruschi, esso consta infatti di 230 righe e di circa 1350 parole. Il testo ha una storia molto curiosa: verso la metà dell'Ottocento un collezionista croato (Mihail de Brariæ, scrittore della Regia cancelleria ungherese) aveva riportato in patria dall'Egitto, secondo l'uso dell'epoca, alcuni oggetti antichi, fra i quali una mummia. Qualche tempo dopo ci si accorse che le bende del reperto erano coperte da un testo scritto con l'inchiostro nero. Solo nel 1892 questo testo, di oltre 1200 parole, venne studiato dall'egittologo Brugsch e identificato come etrusco. Dal 1947 mummia e bende vennero trasferite al Museo di Zagabria. L'ultimo restauro è stato curato da un'équipe italiana nel 1997.
Si tratta di un calendario rituale che specifica le cerimonie da compiere nei giorni prestabiliti in onore di varie divinità. Le prescrizioni di carattere religioso sono tipiche dell'area tra Perugia, Cortona e Lago Trasimeno. La scrittura, molto precisa e accurata, è quella in uso nell'Etruria settentrionale tra il III e il lI secolo a. C. Un esempio dalla III colonna, riga 3: "celi huthis zathrumis flerxva Nethunsl sucri" "Settembre sei venti offerte a Nettuno si dedichino " ossia " il 26 settembre si dedichino venti offerte a Nettuno" Si pensa che questo libro di lino, conosciuto come liber linteus di Zagabria, appartenesse a un aruspice, e che sia stato poi ridotto in strisce per fasciare la mummia.
Cippo di Perugia
E' un cippo rettangolare di travertino, ritrovato nei dintorni di Perugia e conservato ora al Museo archeologico della città. L'iscrizione corre per 24 righe sulla facciata e continua su una delle superfici per 22 righe, per un totale di 128 parole. La scrittura è quella in uso a Perugia tra III e II secolo a.C. Il testo, a carattere giuridico, e la trascrizione su pietra di una sentenza relativa a questioni di proprietà tra le famiglie perugine dei Velthina e degli Aftuna.
Righe 1-2: menzionato un giudice o testimone ([t]eurat) di nome Larth Rezu, in presenza del quale è stretto (ame) un patto (vachr) tra le due famiglie.
Riga 5: presente il concetto di “etrusco” o “pubblico” (rasnes), in connessione con la fonte del diritto cui si fa riferimento.
Righe 5-6: la parola naper davanti al numerale XII indica probabilmente una misura di superficie.
Riga 8: si fa esplicita menzione di confini (tularu).
Righe 20-21: si allude alla tomba dei Velthina (Velthinathuras thaura).
L’iscrizione termina, sul fianco sinistro del cippo, con l’espressione verbale “sta scritto” (zichuche), a convalida della trascrizione del patto.
Fegato di Piacenza
Il fegato etrusco di bronzo ha le seguenti dimensioni: mm 126 x 76 x 60.
Per l'esame delle viscere esso veniva capovolto di sotto in su perché la parte inferiore era ritenuta la più importante, su questa si alzano tre protuberanze che sporgono: la più piccola a forma semi mammellare (il processus papillaris), la seconda piramidale (il processus pyramidalis), la terza è la cistifellea.
Su questa superficie si trovano quaranta iscrizioni che si riferiscono a nomi di divinità tra le quali sono identificate:
Tin (Giove), Uni (Giunone), Neth (Uns), (Nettuno), Vetisi (Veiove), Satres (Saturno), Ani (Giano), Selva (Silvani), Mari (Marte), Futlus (Bacco), Cath (Sole), Herole (Ercole), Mae (Maius)
e altri cinque o sei che non hanno corrispondente nella religione romana. Nella parte convessa si trovano due iscrizioni, una su di un lobo (Usils = parte del sole), l'altra sull'altro (Tivs = parte della luna). Il fegato di bronzo reca attorno al margine esattamente sedici caselle contenenti ciascuna il nome di una divinità e queste sedici caselle corrispondono alle altrettante parti in cui gli Etruschi dividevano il cielo.
Fegato di fronte e trascrizione
Sul fegato etrusco sono stati fatti molti studi, i più importanti furono quelli dei ricercatori tedeschi Deecke (1880), Korte (1905), Thulin (1906) che misero in risalto l'importanza di questo cimelio archeologico definendolo un documento fondamentale per la conoscenza della religione e della lingua etrusca. Ma a che cosa serviva questa riproduzione bronzea di un fegato di pecora con tante iscrizioni in lingua etrusca? Il Korte lo confrontò con il coperchio di un'urna cineraria ritrovata a Volterra che rappresentava un sacerdote (3° secolo a.C.) che tiene in mano un fegato come quello ritrovato a Ciavernasco di Settima, vicino al ponte della Ragione. Dunque, il nostro bronzo è uno strumento originale della “disciplina”; l'aruspice interpretava il volere divino da segni particolari riscontrati nel fegato della vittima sacrificata, cioè poteva prevedere se un'impresa si sarebbe compiuta sotto influssi favorevoli o sfavorevoli, confrontando il viscere ancora caldo col modello bronzeo inscritto, che fungeva da guida, da prontuario. Il Fegato Etrusco risale al periodo tra il secondo e il primo secolo avanti Cristo (come denunciano le caratteristiche delle scritture usate nelle iscrizioni) e non all'epoca della dominazione etrusca nella Pianura Padana (V - IV - sec. a.C.). Quindi il fegato non è da ritenersi un documento della dominazione etrusca nella provincia di Piacenza, ma un oggetto prodotto successivamente da nuclei etruschi presenti nelle colonie tra Pesaro e Rimini o nella stessa Piacenza, oppure è da ritenersi un oggetto erratico perduto da un auspice che seguiva una legione romana (Ducati). La sua relativa "tardità" nulla toglie all'interesse che desta in noi, perché rappresenta una lunga tradizione conservatasi intatta attraverso i secoli (Terzaghi). Più di quaranta saggi sono stati pubblicati in tutto il mondo sul Fegato piacentino, ciò testimonia la "fama" a livello mondiale del nostro reperto, unico esemplare nella sua forma (esiste un altro Fegato di Alabastro al museo Guarnacci di Volterra); modelli di fegato con le stesse caratteristiche suddivisioni, sono stati ritrovati a Babilonia, nella valle del Tigri e dell'Eufrate e ad Hattusas la capitale degli Ittici. Questi sono in terracotta ma utilizzati con lo stesso scopo religioso di quello di Piacenza.
Esiste anche un’interpretazione geografica del fegato, di cui si riporta una breve descrizione:
• le scritte sulla parte posteriore della mappa indicano le due regioni principali della mappa, la parte meridionale LIVR (o TIVR, non è chiara la lettera iniziale) diventa YHDS (oppure T-HDS) che ricorda sia la parola GIUDA che la HADESH (Kadesh) storicamente famosa e attualmente localizzata erroneamente nella Siria mediorientale
• la regione settentrionale viene invece denominata YSILS che diventa P^HY^, leggibile come PNHYN (in queste scritte le due lettere S etrusche appaiono unificate e quindi c’è equivalenza tra la N semitica e la sua quasi uguale ^, la lettera "muta"), la regione del monte PAN-Cervino nonché legata alla questione punica, tra le scritte delle singole regioni appaiono evidenti le seguenti interpretazioni:
• la montagna a forma di conoide, il monte Cervino, si presenta con la scritta TLUS che diventa TYP^ (TYPN), il nome della divinità TIFEO (TIFONE)
• Tifeo-Tifone è legato storicamente ai vulcani dell'Italia meridionale, dall'area vesuviana al vulcano Etna e difatti nella mappa compare la scritta TYP^ esattamente nel settore che corrisponde alla Campania e nello spicchio esterno corrispondente alla Sicilia
• tra la regione Sicilia (TLUS che diventa TYP^) e la regione Calabria c’è un segno lungo che indica chiaramente lo stretto di Messina
• la regione Calabria, indica con il nome LEThA tale stretto di Messina e la parola diventa YG-ZB
• a prescindere dal significato suo originale (per esempio Z-B, "questo è il padre"), ZB è lo ZEB famoso nelle cronache assire, un fiume che nasce dal Monviso, scorre nell'Adriatico, passa dallo stretto di Messina e arriva a sfociare nell'oceano Atlantico
• che la parola ZB sia legata a questo fiume appena descritto lo ritroviamo nella parola accanto al Monviso, che anch'essa la si legge come YG-ZB-K (LEThAM etrusco)
• sappiamo per certo che il fiume ZEB erano due, uno meridionale e uno settentrionale, e difatti troviamo al di là della catena alpina, dove nasce il fiume Danubio, la parola CAThA che diventa tB-ZB, il "doppio Zeb", o meglio l'altro Zeb da identificare come Danubio
• nella parte centrale del fegato abbiamo la catena alpina e sotto di essa abbiamo il fiume che nasce dalla protuberanza a sinistra, il Po e il Monviso, la catena montuosa alpina si abbassa nella parte occidentale l'ultima lingua della protuberanza rappresenta la striscia morenica all'imbocco della valle d'Aosta (la più grande morena glaciale d'Europa, un panorama unico che lo si nota fin da lontano)
• si raggiunge così la zona della grande piramide, così alta da essere visibile da tutta la pianura
• finche' siamo in pianura la piramide è rappresentata dal Monterosa (un riferimento unico per come si distingua nettamente dal resto della catena)
• girando dietro la morena ed entrando nella valle d'Aosta la vera montagna-piramide la identifichiamo con il monte Cervino.
La regione Toscana appare come YD^Y, chiaramente legata a Giuda e la parola successiva contiene il DG che contraddistingue la civiltà etrusca, il VEL che diventa appunto DGY, con DG uguale a "pesce" ma anche ai successivi DOGI
• la regione delle Marche appare come "tHYGL", chiaramente legata ai TIGLAT assiri di cui troviamo tracce nei reperti Piceni
• la regione degli Abruzzi appare come NGY-DB e sembra legata all'influenza della lingua ungherese (non è un caso che sia così dato che il popolo Israelitico abitava a fianco di altre popolazioni e gli stessi Edomiti balcanici presero il loro posto durante le deportazioni), SELVA diventa NGY-DB, il "grande dio" ("nagy deba")
• la stessa scritta NGY-DB la ritroviamo difatti nella zona balcanica a mostrare il collegamento di questa regione italica con quelle balcaniche-danubiane
• nelle regioni tedesche, nella parte settentrionale della mappa, troviamo riferimenti ai "fasci", P-Sh (con la P che semioticamente si tramuta facilmente in F, come Fenici e Punici)
• la parte più settentrionale, all'incirca la Danimarca, viene scritta come TINSRNE che diventa THLNS-LG, i "luoghi di Atlans" e mi sembra ovvio come questo abbia portato a considerare anticamente Atlante colui che sostiene il mondo (è questa la regione dove si è più vicini al cielo della stella polare) e anche Atlantide trova qui la sua localizzazione
L’arte divinatoria degli aruspici etruschi, che interpretavano le viscere degli animali, incuriosì i Romani e molti Imperatori ebbero il proprio sacerdote aruspice personale di origini etrusche, per predire i disegni celesti degli Dei.
La religione degli Etruschi fu una religione rivelata, trasmessa da profeti e poi scritta nei libri. I fondamenti religiosi furono trasmessi dagli dei agli uomini attraverso due intermediari: il fanciullo dall’aspetto di vecchio, Tagete, e la ninfa Vegoia. Questi avrebbero rivelato le verità soprannaturali ed in quale modo riconoscere la volontà divina, in altri termini avrebbero insegnato agli uomini l’arte divinatoria.
Gli Etruschi erano politeisti. Alle divinità dedicarono numerosi templi, costruiti non solo nelle città, ma anche nei luoghi di passaggio, come porti e valichi. Nel tempio si recavano per pregare, offrire sacrifici alle divinità, conoscere il volere degli dèi.
La religione svolgeva un ruolo centrale nella vita di questo popolo. Secondo gli Etruschi, infatti, gli dèi rivelavano agli uomini la propria volontà attraverso particolari segni. I sacerdoti erano specializzati nell'interpretazione di tali segni: gli àuguri erano i sacerdoti che conoscevano il significato del volo degli uccelli; gli aruspici, invece, sapevano leggere le viscere degli animali sacrificati; inoltre i sacerdoti etruschi erano abilissimi (e per questo rinomati) nell'interpretazione dei fulmini. L'insieme delle dottrine del complesso mondo religioso etrusco era raccolto in quello che i romani definirono Disciplina etrusca, una raccolta codificata di riti e pratiche dei rapporti con il divino. Della disciplina etrusca fanno parte anche i Libri Tagetici, chiamati così poiché sarebbero stati "rivelati", secondo la tradizione, da Tagete, figlio di Genio e di Tinia, emerso dal solco di un aratro nella campagna di Tarquinia.
Il pantheon etrusco
Le più antichità divinità degli etruschi rappresentavano le forze della natura, distruttrici e creatrici al tempo stesso: Tarconte era il dio della tempesta, distruttore ma anche dispensatore di benefica pioggia; Velka era il dio del fuoco e, insieme, della vegetazione. Sommo dio dell'Etruria - dice Varrone - era Velthune (in latino Vertumnus o Voltumna), il multiforme, che rappresentava l'eterno mutare della stagione ed era adorato nel santuario federale di Volsinii. All'antico pantheon appartenevano anche gli dèi Selvans (Silvano) e Ani (poi Giano) e la dea Northia, divinità probabilmente del fato. Dal VII secolo a.C. molte divinità di fondo originariamente etrusco vennero assimilate agli dèi olimpici: la divinità superiore Tinia (o Tin), rappresentata sempre col fulmine, fu l'equivalente di Zeus ossia Jupiter (Giove); lo stesso avvenne con Uni, compagna di Tinia, che divenne Hera, ossia la Iuno latina (Giunone). Turan, la dea dell'amore, fu assimilata ad Afrodite e quindi alla Venus (Venere) latina; Menerva ad Athena (Minerva); Maris ad Ares (Marte); Nethuns a Poseidon (Nettuno); Turms a Hermes (Mercurio); Fufluns a Dionisio (Bacco); Sethlans a Efesto (Vulcano); di Castor e Pollux (Castore e Polluce, i Dioscuri) diventati Castur e Pultuce, ecc. Ci furono anche dèi nuovi, importati direttamente dal mondo greco, che conservarono il loro nome appena etruschizzato: Artemis (ossia Diana) divenne Aritimi, Apollon (Apollo) fu chiamato Apulu, Heracles (Ercole) cambiò in Hercle. Controversa è l'origine etrusca delle ''triadi" che conosciamo con certezza soltanto nel mondo romano: non è chiaro se la triade capitolina Giove-Giunone-Minerva corrisponda a Tinia-Uni-Menerva. Di sicura origine greca sono invece le coppie (''diadi"), come quella degli dèi infernali Ade e Persefone (in etrusco Aita e Phersipnai).
Sin dall’epoca più antica per gli Etruschi la morte è sentita come un passaggio verso un’altra dimensione, che nel VI-V sec. a.C. assume una precisa connotazione fisica e geografica, nella quale il defunto entra in contatto con demoni ed esseri psicopompi.
Si afferma l’idea del viaggio ultraterreno al termine del quale il defunto giunge in un Aldilà sereno dove incontra i suoi stessi avi, entrando a far parte di una comunità che gode di uno stato affine a quello degli dei, ben rappresentato dal simposio. Nell’immaginario visivo, trasmessoci dall’arte figurativa di carattere funerario, l’attenzione è spesso posta sul drammatico momento del distacco dal mondo dei vivi, talora simbolicamente richiamato dalla porta da oltrepassare.
Figure demoniache di varia natura custodiscono le porte dell’Ade, intervengono a prelevare, guidare, sollecitare il defunto nel suo cammino verso l’Ade, un cammino che a volte assume le tinte di una eroizzazione, se non addirittura di una apoteosi celeste.
Gli Etruschi credevano nell’ineluttabilità del destino, al limite potevano solo rendere più piacevole la loro permanenza terrena, per questo motivo compivano feste e riti magici. Credevano nell’aldilà, in particolare nell’inferno, che aveva una porta di accesso, detta mundus, sorvegliato dalla terribile figura del demone Tuchulcha, mostro con orecchie d’asino, il muso di avvoltoio e i capelli fatti da serpenti. Questa figura fa maggiormente la sua presenza nella fase di declino della cultura etrusca, caratterizzata dalla presenza di morte e persecuzioni.
Il demone degli inferi era Charun, che accompagna i morti nell’aldilà, da cui si rievoca la figura di Caronte, portava indosso un mantello ed aveva in mano un martello, simile a quello impiegato oggi per la sepoltura del Papa, con il quale si tocca tre volte la tempia del pontefice defunto. Un gioco funebre caratteristico è quello legato al mito di Phersu, da cui ha origine la parola "persona", che aizza un cane contro una persona con la testa coperta da un sacco, che lentamente viene legata. Il cane sbrana la persona e sta a testimoniare l’ineluttabilità del destino. Le tombe rappresentavano le scene di vita quotidiana: gioia, feste, pranzi e, negli ultimi anni, dolore e terrore. Adottarono un calendario introdotto dai Tarquini, con influenze mesopotamiche, e poi modificato da Cesare, con l’aiuto sempre di tirreni. In esso si ricordavano feste e appuntamenti sacri. Suddivisero la loro era in dieci saeculum dopo dei quali ci sarebbe stata la fine della civiltà tirrenica, come in realtà fu confermato dalla storia.
Lo spazio sacro
Lo spazio “sacro”, orientato e suddiviso, risponde ad un concetto che in latino si esprime con la parola templum. Esso riguarda il cielo, o un'area terrestre consacrata - come il recinto di un santuario, di una città, di un'acropoli, ecc. -, ovvero anche una superficie assai più piccola (ad esempio il fegato di un animale utilizzato per le pratiche divinatorie), purché sussistano le condizioni dell'orientamento e della partizione secondo il modello celeste. L'orientamento è determinato dai quattro punti cardinali. congiunti da due rette incrociate, di cui quella nord-sud era chiamata cardo (con vocabolo prelatino) e quella est-ovest decumanus nella terminologia dell'urbanistica e dell'agrimensura romana che sappiamo strettamente collegate alla dottrina etrusco-italica.
Posto idealmente lo spettatore nel punto d'incrocio delle due rette, con le spalle a settentrione, egli ha dietro di se tutto lo spazio situato a nord del decumanus. Questa metà dello spazio totale si chiama appunto «parte posteriore» (pars postica). L'altra metà che egli ha dinnanzi agli occhi, verso mezzogiorno, costituisce la «parte anteriore» (pars antica). Una analoga bipartizione dello spazio si ha nel senso longitudinale del cardo: a sinistra il settore orientale, di buon auspicio (pars sinistra o jamiliaris); a destra il settore occidentale, sfavorevole (pars dextra o hostilis). La volta celeste, così orientata e divisa, s'immaginava ulteriormente suddivisa in sedici parti minori, nelle quali erano le abitazioni di diverse divinità. Questo schema appare riflesso nelle caselle del bordo esterno (appunto in numero di sedici) e nelle caselle interne (ad esse corrispondenti, seppure in maniera non del tutto chiara) del fegato di Piacenza.
Tra i numi dei sedici campi celesti, citati da M. Cappella, e i nomi divini in scritti sul fegato esistono indubbie concordanze, ma non una corrispondenza assoluta, perché l'originaria tradizione etrusca pervenne presumibilmente alterata nelle fonti del tardo scrittore romano, con qualche spostamento nelle sequenze. Ciò nonostante è possibile ricostruire un quadro approssimativo del sistema di ubicazione cosmica degli dèi secondo la dottrina etrusca. Esso ci mostra che le grandi divinità superiori, fortemente personalizzate e tendenzialmente favorevoli, si localizzavano nelle plaghe orientali del cielo, specie nel settore nord-est; le divinità della terra e della natura si collocavano verso mezzogiorno; le divinità infernali e del fato, paurose ed inesorabili, si supponevano abitare nelle tristi regioni dell'occaso, segnatamente nel settore nord-ovest, considerato come il più nefasto.
La posizione dei segni che si manifestano in cielo (fulmini, volo di uccelli, apparizioni prodigiose) indica da qual nume proviene agli uomini il messaggio e se esso è di buono o di cattivo augurio. Indipendentemente dal punto di origine, una complicata casistica riguardante le caratteristiche del segnale (per esempio la forma, il colore, l'effetto del fulmine, o il giorno della sua caduta) aiuta a precisarne la natura: se si tratti cioè di un richiamo amichevole, o di un ordine, o di un annuncio senza speranza e così via. Lo stesso valore esortativo o profetico hanno le speciali caratteristiche presentate dal fegato di un animale sacrificato, preso in esame dall'aruspice, secondo una corrispondenza delle sue singole parti con i settori celesti. Così l'«arte fulguratoria» e l'aruspicina, le due forme tipiche della divinazione etrusca, appaiono strettamente collegate; ne fa meraviglia che esse possano essere state esercitate da un medesimo personaggio, come quel L. Cafatius di cui si rinvenne a Pesaro l'epitaffio bilingue e che fu appunto haruspex (in etrusco netsvis) e fulguriator (cioè interprete dei fulmini: in etrusco trutnvt frontac o trutnvt?). Uguali norme devono aver presieduto all'osservazione divinatoria del volo degli uccelli, come intravvediamo specialmente da fonti umbre (Tavole di Gubbio) e latine.
A tal proposito, ha una speciale importanza lo spazio terrestre di osservazione e cioè, il templum augurale con il suo orientamento e le sue partizioni, cui senza dubbio si ricollega la disposizione non soltanto dei recinti sacri, ma dello stesso tempio vero e proprio, cioè l'edificio sacro contenente il simulacro divino, che in Etruria appare di regola orientato verso sud o sud-est, con una pars antica che corrisponde alla facciata ed al colonnato ed una pars postica rappresentata dalla cella o dalle celle. E del pari le regole sacre dell'orientamento si osservano (almeno idealmente) nella planimetria delle città (concreto esempio monumentale è Marzabotto in Emilia), e nella partizione dei campi.
Un altro aspetto che si ricollega alla mentalità primitiva degli Etruschi, è l'interpretazione mistica dei fenomeni naturali, che persistendo sino in età molto recente viene a contrastare in maniera drammatica con la razionalità scientifica dei Greci. A questo riguardo, è particolarmente significativo e rivelatore un passo di Seneca (Quaest. nat., II, 32, 2) a proposito dei fulmini: Hoc inter nos et Tuscos ... interest: nos putamus, quia nubes collisae sunt, fulmina emitti, ipsi existimant nubes collidi, ut fulmina emittantur," nam, cum omnia addeum referant, in ea opinionesunt, tamquam non, quiafactasunt, significent, sed quia significatura sunt, fiant. (La differenza fra noi [cioè il mondo ellenistico-romano] e gli Etruschi... è questa: che noi riteniamo che i fulmini scocchino in seguito all'urto delle nubi; essi credono che le nubi si urtino per far scoccare i fulmini; tutto infatti attribuendo alla divinità, sono indotti ad opinare non già che le cose abbiano un significato in quanto avvengono, ma piuttosto che esse avvengano perche debbono avere un significato...).
L'al di là
La mistica unità del mondo celeste e del mondo terrestre si estende verisimilmente anche al mondo sotterraneo nel quale è localizzato, secondo le dottrine etrusche più evolute, il reame dei morti. Gran parte delle nostre conoscenze sulla civiltà degli antichi Etruschi proviene, come è noto, dalle tombe (la stragrande maggioranza delle iscrizioni è di carattere funerario; alle pitture, alle sculture, alle suppellettili sepolcrali siamo debitori dei dati fondamentali sullo sviluppo delle forme artistiche e sugli aspetti della vita). Ed è naturale che le tombe ci offrano, più o meno direttamente, indizi sulle credenze relative alla sorte futura degli uomini e sui costumi e sui riti collegati a queste credenze.
Il carattere stesso delle tombe e dei loro equipaggiamenti, soprattutto nelle fasi più antiche, offre una testimonianza inequivocabile secondo le quali la individualità del defunto, comunque immaginata, sopravvive in qualche modo congiunta con le sue spoglie mortali, là dove esse furono deposte. Ne consegue l'esigenza, fondamentale per i superstiti, di garantire, difendere, prolungare concretamente questa sopravvivenza, non soltanto come tributo sentimentale di affettuosa pietà, ma come obbligo religioso non disgiunto, probabilmente, da timore.
A questo genere di concezioni appartiene in Etruria, come altrove (e segnatamente nell'antico Egitto), la tendenza ad immaginare il sepolcro nelle forme di una casa, a dotarlo di arredi e di oggetti d'uso, ad arricchirlo di figurazioni pregne, almeno originariamente, di significato magico (specialmente pitture tombali con scene di banchetto, di musica, di danze, di giuochi atletici, ecc.), a circondare il cadavere delle sue vesti, dei suoi gioielli e delle sue armi; a servirlo con cibi e bevande; ad accompagnarlo con figurine di familiari; e, infine, a riprodurre l'immagine somatica del morto stesso, per offrire un incorruttibile «appoggio» allo spirito minacciato dal disfacimento del corpo, onde in Etruria (come già in Egitto) sembra nascere il ritratto funerario.
All'origine della storia delle città etrusche vediamo infatti dominare pressoché esclusivo un rito funebre, quale è quello della cremazione, che anzi, almeno nella piena età storica, esso sembra talvolta significare un'idea di «liberazione» dell'anima dai ceppi della materia verso una sfera celeste. Tanto più curioso è osservare come nelle tombe etrusche del periodo villanoviano e orientalizzante le ceneri e le ossa dei morti bruciati si contengano talvolta in urne in forma di abitazioni o entro vasi che tentano di riprodurre le fattezze del morto (i così detti "canopi" di Chiusi). Né si può affermare che l'idea della sopravvivenza nella tomba escluda assolutamente una fede nella trasmigrazione delle anime verso un regno dell'al di là". Ma è certo che in Etruria quest'ultima concezione si venne affermando e concretando progressivamente sotto l'influsso della religione e della mitologia greca, con l'attenuarsi delle credenze primitive: e si configurò secondo la visione dell' averno omerico, popolato da divinità ctonie, spiriti di antichi eroi ed ombre di defunti.
A simboleggiare la morte sono specialmente due figure infernali: la dea Vanth dalle grandi ali e con la torcia, che, simile alla greca Moira, rappresenta il fato implacabile; e il dèmone Charun, figura semi bestiale armata di un pesante martello, che può considerarsi una paurosa deformazione del greco Caronte dal quale prende il nome. Sia di Vanth sia di Charun esistono moltiplicazioni, forse con una propria individualità ed un proprio secondo nome. Ma la demonologia infernale è ricca e pittoresca, e conosce altri personaggi, come l'orripilante Tuchulcha dal volto di avvoltoio, dalle orecchie d'asino e armato di serpenti; accoglie largamente la simbologia di animali ctonii, come il serpente e il cavallo.
Stando alle pitture e ai rilievi sepolcrali, parrebbe che il destino dei morti fosse inesorabilmente triste ed uguale per tutti: la legge crudele non risparmia neanche i personaggi più illustri, la cui affermazione di superiorità si limita ai costumi sfarzosi, agli attributi delle cariche rivestite e al seguito che li accompagna nel viaggio agli inferi. Esistono tuttavia nella tradizione letteraria, alcuni accenni più o meno espliciti a consolanti dottrine di salvazione, e cioè alla possibilità che le anime conseguano uno stato di beatitudine o addirittura di deificazione, attraverso speciali riti che sarebbero stati descritti dagli Etruschi nei loro Libri Acherontici. Un prezioso documento originale di queste cerimonie di suffragio, con prescrizioni di offerte e di sacrifici a divinità specialmente infernali, sembra esserci conservato nel testo etrusco della tegola di Capua, che risale al V secolo a.C. Non sappiamo fino a che punto allo sviluppo di queste nuove concezioni escatologiche abbia contribuito il diffondersi in Etruria di dottrine orfiche, pitagoriche e, più ancora, dionisiache (il culto di Bacco è, in verità, largamente attestato anche in rapporto con il mondo funerario).
La concretezza degli atti cultuali si manifesta nella precisa determinazione dei luoghi, dei tempi, delle persone e delle modalità, entro i quali e attraverso i quali si compie l'azione stessa volta ad invocare o a placare la divinità: quell'azione che i Romani chiamavano nel loro complesso res divina e gli Etruschi probabilmente ais(u)na (cioè, appunto, servizio "divino", da ais "dio"): donde, anche, la parola umbra esono "sacrificio". Essa si svolge nei luoghi consacrati (tempia) dei quali si è fatta già menzione: recinti con altari e edifici sacri contenenti immagini delle divinità. Sovente questi edifici sono orientati verso sud e sud-est.
Il concetto di consacrazione al culto di un determinato luogo o edificio è forse espresso in etrusco dalla parola sacni (donde il verbo sacnisa): questa condizione può estendersi, come in Grecia e nel mondo italico e romano, ad un complesso di recinti e templi, per esempio sulle acropoli delle città (Marzabotto); carattere in certo senso analogo hanno anche le tombe, presso le quali o entro le quali si compiono sacrifici funerari o si depongono offerte.
Speciale importanza deve avere avuto in Etruria la regolamentazione cronologica delle feste e delle cerimonie, che, insieme con le modalità delle azioni sacre, costituiva la materia dei Libri Rituales ricordati dalla tradizione. Il massimo testo rituale etrusco, tramandatoci nella lingua originale -e cioè il manoscritto su tela parzialmente conservato nelle fasce della mummia di Zagabria - contiene un vero e proprio calendario liturgico, Con l'indicazione dei mesi e dei giorni ai quali si riportano le cerimonie descritte. È probabile che altri documenti fossero redatti nella forma attestata dai calendari sacri latini: e cioè come una elencazione consecutiva di giorni contrassegnati dal solo titolo delle feste o dal nome della divinità celebrata.
Il calendario è diviso in dieci sezioni, corrispondenti ai dieci mesi del calendario antichissimo e comincia da marzo (in etrusco, probabilmente, Velxitna). Anche il calendario romano (da cui deriva il moderno) ebbe, in origine, dieci mesi e certamente cominciava da marzo; ciò è provato al di là di ogni dubbio dai nomi di settembre, ottobre, novembre e dicembre, che oggi si trovano al nono, decimo, undicesimo e dodicesimo posto.
Le fonti antiche dicono che gennaio e febbraio furono aggiunti dal re Numa; nel De die natali di Censorino (20, 30) si legge: «I quali ritenevano che i mesi siano stati dieci, come un tempo succedeva presso gli Albani, da cui ebbero origine i Romani. Quei dieci mesi (degli Albani) avevano in tutto 304 giorni, così distribuiti: marzo 31, aprile 30, maggio 31, giugno 30, quintìle 31, sestìle e settembre 30, ottobre 31, novembre e dicembre 30».
marzo = *velxitna; aprile = apiras( a); maggio = anpili(a) o ampner; giugno = acalva o acal(a); luglio = *turane o par-{}um; agosto = *hermi; settembre = celi; ottobre = *xesfer.
Il calendario etrusco era forse analogo al calendario romano precesareo: conosciamo il nome di alcuni mesi e sembra che le "idi", circa a metà del mese, abbiano un nome di origine etrusca; ma il computo dei giorni del mese segue generalmente, a differenza del calendario romano, una numerazione consecutiva. Ogni santuario ed ogni città doveva avere, come è logico, le sue feste particolari: tale è appunto il caso del sacni cilfh (santuario di una città non altrimenti identificabile), al quale fa riferimento il rituale di Zagabria. Le celebrazioni annuali del santuario di Voltumna presso Volsinii avevano invece carattere nazionale, come sappiamo dalla tradizione. Tra le cerimonie e gli usi sacri può ricordarsi quello dell’infissione dei chiodi per segnare gli anni (clavi annales) nel tempio della dea Nortia a Volsinii, ricordato a proposito dell'analogo rito del tempio di Giove Capitolino a Roma. Anche per intendere la natura e l'organizzazione dei sacerdozi siamo costretti ad avvalerci del confronto con il mondo italico e romano.
Abbiamo in ogni caso indizi per ritenere che essi fossero vari e specializzati, strettamente collegati con le pubbliche magistrature e sovente riuniti in collegi. Il titolo sacerdotale cepen (con le varianti cipen attestata in Campania), particolarmente frequente nei testi etruschi, è ad esempio seguito spesso da un attributo che ne determina la sfera d'azione o le specifiche funzioni: come nel caso di cepen fhaurx, che senza dubbio indica un sacerdote funerario (da fhaura «tomba»). La dignità sacerdotale in genere o specifici sacerdozi è designata anche con altre parole: quali eisnevc (in rapporto con aisna, l'azione sacrificale), celu, forse santi, ecc. Si hanno inoltre i sacerdoti divinatori: e cioè gli aruspici (netsvis), rappresentati nei monumenti con un costume caratteristico composto di un berretto a terminazione cilindrica e di un manto frangiato, e gl'interpreti dei fulmini (trutnvt?). Il titolo marun-, è, come già sappiamo, in rapporto con funzioni sacrali, per esempio nel culto di Bacco (marunux paxanati, maru paxafhuras): si osservi il doppio titolo cepen marunuxva, che indica probabilmente un sacerdozio con le funzioni proprie dei maru. Si può ricordare anche il titolo zilx cexaneri, nel quale si è voluto intendere qualcosa come "curator sacris faciundis", (ma è congettura molto opinabile). Probabilmente a confraternite si riferiscono termini collettivi quali paxafhuras, formalmente analoghi a quelli che esprimono aggregati gentilizi (per es. Velfhinafhuras nel senso dei membri della famiglia Velfhina) o altri collegi.
Uno degli attributi dei sacerdoti era il lituo, bastone dall'estremità ricurva, che è però frequentemente rappresentato nei monumenti anche in rapporto ad attività profane, per esempio in mano ai giudici delle gare atletiche. L 'azione del culto è volta ad interrogare la volontà degli dèi, secondo le norme dell'arte divinatoria; e quindi ad invocare il loro aiuto e perdono attraverso l'offerta. È probabile che l'una e l'altra operazione fossero strettamente collegate tra loro; benché sia ricordata dalle fonti letterarie una distinzione tra vittime sacrificate per la consultazione delle viscere (hastiae cansultatariae) e vittime destinate all'offerta vera e propria, in sostituzione dei sacrifici umani (hastiae animales). Del pari intrecciate in complicati cerimoniali sembrano le offerte incruente (di liquidi e cibi) con quelle cruente di animali. Il grande rituale di Zagabria e il rituale funerario della Tegola di Capua descrivevano minuziosamente, in tono prescrittivo e con un linguaggio tecnico specializzato, queste liturgie; la preghiera, la musica, la danza dovevano avere larga parte nelle cerimonie. Una scena di culto con offerte è rappresentata nella parete di fondo della Tomba del Letto Funebre di Tarquinia.
I doni votivi offerti nei santuari, per grazie chieste o ricevute, consistono per lo più di statue di bronzo, pietra, terracotta, raffiguranti le divinità stesse e gli offerenti, o anche animali, in sostituzione delle vittime, e parti del corpo umano; inoltre vasi, armi, ecc. Questi oggetti che erano ammassati in depositi o favisse, recano spesso iscrizioni dedicatorie.
L'antropomorfizzazione e le statue cinerarie
Il Museo Archeologico di Firenze rivela al visitatore un aspetto interessante della civiltà etrusca, talvolta non del tutto conosciuto. Il fenomeno riguarda in particolare la città di Chiusi, le cui manifestazioni connesse all'arte e all'artigianato rivelano, già nel VII secolo a.C., una tendenza all'antropomorfizzazione: i vasi canopi. Sono ossuari realizzati in genere con ceramica di impasto, ma talvolta anche in metallo (bronzo), cinerari che presentano per coperchio una raffigurazione stilizzata della testa del defunto; qualche volta, il "vaso" ha due piccole braccia disegnate a rilievo e può essere collocato sulla rappresentazione miniaturizzata di un sedile (Museo archeologico-topografico, sala di Chiusi). Qualcosa di simile troviamo anche nel periodo Villanoviano, quando per coperchio del vaso biconico è posto un elmo, quasi a voler restituire un 'integrità fisica al defunto.
Successivamente, nel V secolo a.C., questa tendenza diventa ancora più evidente con la presenza, sempre nella città di Chiusi, di statue cinerario: grandi sculture, come quella della Mater Matuta, scolpite in pietra, che ospitano in una cavità interna le "ceneri" del defunto, mentre la testa amovibile della statua funge da "chiusura”.
La "disciplina etrusca"
Secondo gli etruschi, gli dèi condizionavano il mondo e ogni azione umana: occorreva quindi ''tradurre" la loro volontà andando in cerca dei segni attraverso i quali essa si manifestava. Perciò era necessario avere a disposizione un codice che interpretasse quei segni e un prontuario di norme precise e costanti che per ogni segno indicasse il conseguente comportamento atto a soddisfare (e quindi a seguire) la volontà degli dèi. Questo complesso di conoscenze fu chiamato dai romani ''disciplina etrusca" i cui principi ispiratori erano fatti risalire dagli etruschi all'intervento rivelatore della stessa divinità.
Essa si sarebbe servita di esseri mitici o semidei (come il fanciullo Tagete o la ninfa Vegoe) i quali avrebbero ''dettato" le verità soprannaturali e insegnato agli uomini l'arte di avvicinarsi ad esse: in pratica la divinazione.
Appositi collegi sacerdotali, che si tramandavano la professione di padre in figlio, erano preposti all'interpretazione dei segni della volontà divine: i fulguratores osservavano le traiettorie dei fulmini, i àuguri interpretavano i voli degli uccelli, gli arùspici leggevano il fegato delle pecore e di altri animali sacrificati.
Le dottrine divinatorie e tutte le altre che formavano il corpus minuzioso e vastissimo dei riti etruschi, erano tramandati nei testi della cosiddetta ''disciplina etrusca": i Libri Haruspicini, svelati dal fanciullo Tagete, trattavano la consultazione delle viscere degli animali; i Libri Fulguratores, il cui contenuto era stato manifestato dalla ninfa Vegoe, riguardavano la scienza dei fulmini; i Libri Rituales, svelati anch'essi dalla ninfa Vegoe, trattavano della suddivisione della volta celeste, della gromatica (ripartizione dei campi), dei riti e delle modalità per la fondazione delle città e per la consacrazione dei santuari, e infine degli ordinamenti civili e militari.
Esistevano poi i Libri Acherontici, svelati da Tagete, che esponevano le credenze nell'oltretomba e dettavano le norme per i riti di salvazione. Infine, v'erano i Libri Fatales, nei quali si trattava dei dieci secoli di vita assegnati dal Fato alla nazione etrusca, e i Libri Ostentaria che trattavano dell'interpretazione dei prodigi e dei fenomeni naturali.
L’interpretazione dei fulmini e delle viscere. L’interpretazione dei fulmini.
L’osservazione e l’interpretazione dei fulmini era regolata da una casistica alquanto complessa. Grande importanza avevano il luogo e il giorno in cui essi apparivano, ma anche la forma, il colore e gli effetti provocati. Le varie divinità che avevano la facoltà di lanciarli disponevano, ciascuna, di un solo fulmine alla volta, mentre Tinia ne aveva a disposizione tre.
Il primo era il fulmine “ammonitore” che il dio lanciava di sua spontanea volontà e veniva interpretato come avvertimento; il secondo era il fulmine che “atterrisce” ed era considerato manifestazione d’ira; il terzo era il fulmine “devastatore”, motivo di annientamento e di trasformazione: Seneca scrive che esso “devasta tutto ciò su cui cade e trasforma ogni stato di cose che trova, sia pubbliche che private”. I fulmini erano variamente classificati a seconda che il loro avviso valesse per tutta la vita o solamente per un periodo determinato oppure per un tempo diverso da quello della caduta. C’era poi il fulmine che scoppiava a ciel sereno, senza che alcuno pensasse o facesse nulla, e questo, sempre stando a quel che dice Seneca, “o minaccia o promette o avverte”; quindi quello che “fora”, sottile e senza danni; quello che “schianta”; quello che “brucia”, ecc. Ma Seneca parla anche di fulmini che andavano in aiuto di chi li osservava, che recavano invece danno, che esortavano a compiere un sacrificio, ecc.
Resta da dire che dopo la caduta di un fulmine c’era l’obbligo di costruire per esso una tomba: un piccolo pozzo, ricoperto da un tumuletto di terra, in cui dovevano essere accuratamente sepolti tutti i resti delle cose che il fulmine stesso aveva colpito, compresi gli eventuali cadaveri di persone uccise dalla scarica. Naturalmente, il luogo e la tomba erano considerati sacri e inviolabili ed essendo ritenuto di cattivo auspicio calpestarli, erano recintati e accuratamente evitati dalla gente, quali “nefasti da sfuggire”, come scriveva nel I secolo d.C. il poeta romano Persio originario dell’etrusca Volterra.
L’interpretazione delle viscere
Le viscere degli animali di cui si servivano gli Aruspici (dette in latino exta) erano di diverso tipo: polmoni, milza, cuore, ma specialmente fegato (in latino hepas). Esse venivano strappate ancora palpitanti dal corpo degli animali appena uccisi ed espressamente riservati alla consultazione divinatoria e quindi distinti da quelli immolati per i sacrifici. Si trattava in genere di buoi e talvolta anche di cavalli ma soprattutto di pecore.
Delle viscere dovevano essere prese in considerazione la forma, le dimensioni, il colore ed ogni minimo particolare, specialmente gli eventuali difetti. Quando non rivelavano nulla di apprezzabile per la divinazione, erano ritenute “mute” e inutilizzabili; erano invece “adiutorie” quando indicavano qualche rimedio per scampare ad un pericolo; “regali” se promettevano onori ai potenti, eredità ai privati, ecc.; “pestifere” quando minacciavano lutti e disgrazie. L’osservazione era più minuziosa nel caso del fegato, dato che in esso, per l’aspetto generale e per la particolare conformazione, veniva riconosciuto il “tempio terrestre” corrispondente al “tempio celeste”. La sua importanza era del resto connessa alla credenza diffusa presso gli antichi che esso fosse la sede degli affetti, del coraggio, dell’ira e dell’intelligenza. Ritenuto che nel fegato fosse esattamente proiettata la divisione della volta celeste, si trattava di riconoscere a quale delle caselle di quella corrispondessero, nel fegato, le irregolarità. Le imperfezioni, i segni particolari o anche le regolarità, e quindi prendere in considerazione i messaggi della divinità che occupava la casella interessata. Per meglio riuscire nell’intento, per l’istruzione dei giovani aruspici, venivano utilizzati degli appositi modelli di fegato, in bronzo o in terracotta, sui quali erano riprodotte le varie ripartizioni e scritti i nomi delle diverse divinità.
L’osservazione dei prodigi
• Cosmici (movimenti sismici, piogge particolari, oscuramenti del cielo, aurore boreali, cc …);
• Ricavati dagli Alberi (i quali erano divisi in felices e infelices);
• Ricavati dagli Animali (epatoscopia, bestie fauste e infauste, volo e comportamento degli uccelli
La fama di insuperabili interpreti di viscere e fulmini, della quale godevano gli Etruschi, era completata da quella che li riteneva anche esperti conoscitori del significato di ogni genere di prodigi. Il romano Varrone, che desumeva evidentemente da fonti etrusche, riferisce che tra i prodigi si distinguevano l’ostentum, che prediceva il futuro; il “prodigio”, che indicava il da farsi; il “miracolo”, che manifestava qualcosa di straordinario; il “mostro”, che dava un avvertimento.
Tra i prodigi più frequenti erano annoverati la pioggia di sangue, la pioggia di pietre e quella di latte, gli animali che parlavano, la grandine, le comete, le statue che sudavano, ecc. In aggiunta alle manifestazioni di carattere straordinario, nelle categorie dei prodigi rientravano anche fatti del tutto naturali: c’erano perciò alberi e animali “felici” o “infelici”, cioè portatori di cattivo o di buon auspicio, piante commestibili che portavano bene e piante selvatiche che portavano male. La casistica era infinita: ad essa tutti prestavano in genere molta attenzione, magari per tradizione o per rispetto della comune opinione.
Le “Vie Cave”
Costituite da immani precipizi, nascosti nella vegetazione e scavati con il solo aiuto di scalpelli e piccoli martelli, che potrebbe dare un aiuto a capire il mistero degli etruschi. Uno squarcio profondo trenta metri, scavato nelle profondità di quella Terra che gli Etruschi consideravano sacra. Lo studio delle vie cave solleva interrogativi inquietanti: a cosa potevano servire queste opere colossali? Perché ogni via cava passa per una necropoli? Perché dalle alte pareti si affacciano continuamente aperture di tombe antiche? Perché chiese templari e romitori sono sorti nelle loro vicinanze? Alcuni credono che, ancora oggi, questi luoghi abbiano un “potere” particolare. Le Vie Cave non vennero costruite lungo canali naturali di scolo, come può apparire ad un occhio meno esperto, ma sono scavi totalmente artificiali dettati da altri scopi.
La tecnica di scavo si rifà molto al popolo Egizio. Si scavava “nella roccia una serie di fori che poi venivano riempiti con un grosso cunei di legno secco ed infine colmati d’acqua. L’effetto del rigonfiamento del legno faceva saltare un pezzo di roccia e ripetendo l’operazione una infinità di volte, si riuscivano ad ottenere dei grossi tagli che poi venivano levigati e lisciati a colpi di piccone”.
Per gli Etruschi esisteva dunque nel sottosuolo una divinità dispensatrice di forza e conoscenza. Tutto il loro culto della Terra è la penetrazione fisica e rituale del mondo sotterraneo, alla ricerca di sapere e di potere sacro.
Le vie cave sarebbero, dunque, cammini sacri, passaggi rituali che conducevano dalle città dei vivi a quelle dei morti. La loro profondità sarebbe servita a renderli più vicini al sottosuolo, a contatto con quella che gli Etruschi consideravano la fonte diretta del potere sacro.
Sileno, Tomba dei Demoni Alati e Tomba del Tifone
La mappa delle vie sacre finora rinvenute mostra come la loro distribuzione sembri obbedire ad un grande disegno geometrico. I centri di Sovana, Sorano e Pitigliano sono stati molto importanti tra il VII sec. a. C. fino alla fine della civiltà etrusca. Erano dei borghi quasi inespugnabili collocati al di sopra di speroni tufacei in posizione strategica sia per il controllo del territorio che per il traffico commerciale con la regione appenninica centrale e la zona costiera. Questi tre abitati sono forse tra i pochi di origine etrusca ad aver mantenuto una continuità abitativa fino ai giorni nostri. E’ come se tutte le vie cave convergessero verso un preciso centro geografico: il lago di Bolsena. Velzna era l’antico nome dell’attuale Bolsena, il più grande lago vulcanico d’Europa. Intorno al lago sorgeva il Fanum Voltumnae, il più importante bosco sacro dell’Etruria, dedicato alla dea dell’acqua. Il lago fu scelto dai sacerdoti come Omphalos, cioè ombelico sacro di tutta la civiltà etrusca.
Qui, una volta l’anno, i dodici Lucumoni si riunivano per celebrare l’unità spirituale del popolo etrusco. Al centro del lago sorgono due isole: la Martana e la Bisentina.
Quest’ultima era considerata dagli Etruschi un’isola sacra, il vero cuore geografico e spirituale di tutta la “nazione” etrusca. Il maggiore tempio sacro, però, non è mai stato ritrovato e testi antichi fanno pensare che fu probabilmente occultato dagli stessi sacerdoti, insieme alle sue torri d’oro e ai suoi tesori segreti.
Livio, pur nominando più volte il Fanum, non ne fornisce l’esatta ubicazione: “Così, le due città, inviati gli ambasciatori ai dodici popoli chiedendo che fosse indetto un concilio di tutta l’Etruria presso il Fanum Voltumnae…”; “Le assemblee per stabilire se muovere guerra si tennero presso Volsci ed Equi e in Etruria, presso il Fanum Voltumnae…”; “essendosi tenuto un grande raduno degli Etruschi presso il Fanum Voltumnae…”.
Presso il Santuario di Voltumna si svolgeva “ogni primavera, il congresso federale delle 12 città etrusche . Il congresso prendeva prima in esame gli affari comuni di carattere generale, e quelli di politica estera, deliberava la pace e la guerra…
Nel tempio di Voltumna veniva affermata l’unità della nazione… della lingua, e, soprattutto, della comune fede religiosa… Il FANUM VOLTUMNAE, espressione viva dell’unione e della fede del popolo etrusco, non cessò mai, anche dopo la conquista romana, di rappresentare il ‘cuore’ dell’Etruria…”.
Libri Fulgurales
Seneca (II 32 ss.) e Plinio (II,135 ss:) hanno conservato una larga parte di excepta dai libri fulgorales etruschi e della loro minuziosa casistica (soprattutto delle opere del volterrano Cecina). Il principio basilare è quello secondo il quale: alcuni Dei posseggono le Manubiae, ovvero le potestà di scagliare i fulmini.(Serv. Aen. I,42.) In particolare, 9 dei (Plin. n. h.,II,138), forse da identificare con i misteriosi dii novensiles o novensides della lista di Marziano Capella, ma noti anche in dediche romane.
I tipi di Fulmine sono 11 per 9 Dei, perché Tinia (Tin = Giove) possiede 3 manubiae. (Plin. n.h., II, 138; Sen. n.q. II,41) Le 3 manubie possono distinguersi per il loro significato e per il fatto di essere scagliati da Giove da solo o con il "consiglio" degli altri Dei.
Prima manubia del solo Tinia
Seconda manubia di Tinia + i 12 Dei Consentes
Terza Manubia di Tinia + Dei Involuti
I 3 tipi di fulmini possono essere di natura fisica (Fest. p. 114 L; Sen. n.q. II, 40)
oppure per alcuni (Serv. auct. Aen. VIII, 429) ostentatorium = dimostrativo
(dopo consultazione con i 12 Dei Consentes. Segno di Ira degli Dei. Utile e dannoso serve per impaurire).
peremptorium = perentorio
(Dopo consultazione con i Dei superiores et involuti. Devasta.
Indica che tutto verrà radicalmente trasformato nella vita pubblica o privata.)
presagum = presago
(Di avvertimento persuadere (convincere) o dissuadere (far cambiare idea)).
Da Seneca .manubiae placata est et ipsius concilio iovis mittitur.
oppure per altri (Serv. Aen. I, 230)
quod terreat = che atterrisce
quod adflet = che soffia
quod puniat = che punisce
Degli altri 9 Dei abbiamo solo degli indizi, dalle fonti letterari, per 5 di essi:
Uni = Giunone
Menerva = (Mnrva, Menrua, Meneruva, Merva, Merua, Mera)= Minerva
Sethlans = Vulcano
Mari = (Mars, Maris) Marte
Satres = (Satrs) Saturno
La dottrina romana del fulmine attribuiva i fulmini notturni a Summanus e tenendo conto del fegato di Piacenza e ciò che dice Capella probabilmente il corrispondente etrusco potrebbe essere Cilen - Nocturnus. Mentre l’identità tra Vetisl etrusco e Vediovis o Veiovis romano farebbe attribuire a questo una manubia infera, anche in considerazione di uno Zeus sbarbato munito di fulmine frequente nella iconografia etrusca. Anche per i fulmini vale la dottrina delle 16 regioni che vale per l'epatoscopia.(Plin. n.h. II, 143)
L'esame del fulmine (e del tuono) da parte dell'aruspice prevedeva una casistica precisa, enunciataci da Seneca (n.q. II ,48 ,2 ):
1- Da parte di quale Dio proviene
2- quale = di che tipo è
3- quantum = la durata
4- ubi factum sit, cui = l' oggetto colpito
5- quando, in qua re = in che circostanza
Per quel che riguarda il tipo:
1 - di che colore era il fulmine
manubiae albae = bianche = forse di Tinia
manubiae nigrae = nere = di Sethlans
manubiae rubrae = rosse = forse di Mari
Provenienti dai Pianeti associati al nome divino e non dal Dio.
I fulmini provenienti da Satres provenivano anche dalla Terra in inverno ed erano detti Infernali.
2 - genus:
l' acre del fulmine, il grave del tuono, intensità e capacità erano di 3 tipi:
quod terebrat = che perfora, sottile e fiammeggiante.
quod dissipat = che si disperde, passante, capace di rompere senza perforare.
quod urit = che brucia in 3 modi
come un soffio (afflat) e senza grave danno bruciando dando fuoco
3 - C' erano fulmini Secchi - Umidi e Clarum (Plinio)
Per quel che riguarda l'oggetto colpito i fulmini possono essere
fatidica = cioè portatori espressi di segni eventualmente comprensibili (fata)
bruta = privi di significato
vana = il cui significato si perde
l'oggetto colpito può essere
schiantato = discutere
non rompersi = terebrare
essere + o - affumicato = urere
restare affumicato = fuscare
Per quel che riguarda l'aruspice, Seneca dice che il sacerdote procedeva
con l'analisi sistematica = quomodo exploremus
con l'interpretazione dei segni = quomodo interpretemus
con l'espiazione, propiziazione e purificazione = quomodo ex oremus
Soprattutto, il sacerdote non era solo in grado di leggere i segni, ma anche di evocarli con l'attirare (exorare) il fulmine, regolata da una casistica alquanto complessa che teneva conto della parte del cielo in cui il fulmine appariva (la volta celeste era divisa in sedici parti, abitata ognuna da una divinità), della forma, del colore, degli effetti provocati e del giorno della caduta. Oltre all'osservazione dei fulmini (cheraunoscopia) c'era un'altra forma di divinazione molto generalizzata alla quale era possibile ricorrere ogni volta che fosse ritenuto utile o necessario senza dover attendere altre forme di prodigi dipendenti invece dal caso, come appunto il fulmine.
Il rito di fondazione
Fra i dettami della disciplina etrusca famoso in tutta l'antichità era quello della fondazione di città per il quale erano previste meticolosissime disposizioni. Gli auguri cominciavano col delimitare una porzione di cielo consacrata proprio in funzione del rito (e definita con il termine significativo di templum) all'interno della quale trarre gli auspici dedotti dal volo degli uccelli che la attraversavano, dai fenomeni meteorologici che in quel perimetro potevano verificarsi, o da altre manifestazione considerate provenienti dalle divinità. Veniano poi individuati il centro della città stessa e delle principali direttrici viarie scavando fosse in cui venivano deposte offerte e sovrapposti cippi che fungevano sia da punti di riferimento sia da luoghi sacrali.
Veniva poi tracciato con un aratro dal vomere di bronzo un solco continuo che disegnava il perimetro delle mura, interrotto solo là dove si sarebbero aperte le porte delle città; il solco diventava subito linea inviolabile per tutti gli uomini e attraversarlo equivaleva ad attaccare la città. Lungo tutto il perimetro delle mura correva inoltre, tanto all'esterno quanto all'interno, un'ampia fascia di terreno (il pomerium) che non doveva essere né coltivata né edificata e che era dedicata alla divinità. Una solenne cerimonia di sacrificio inaugurava la città così prefigurata. La fondazione di Roma a opera di Romolo e Remo così come ce l'hanno tramandata le leggende è un'applicazione puntuale del rito etrusco: i gemelli che osservano il volo degli uccelli per decidere chi dei due dovesse dare il nome alla città, il solco tracciato da Romolo, l'uccisione di Remo che, saltando all'interno del perimetro, profana i sacri confini e ''invade" la nuova fondazione.
Agilla e Trasimeno
Narra la leggenda che Agilla, la ninfa del lago, si fosse follemente innamorata del bellissimo principe Trasimeno, figlio del re etrusco Tirreno, che riuscì ad attirare con il suo canto suadente, proprio al centro del lago, nei pressi dell’Isola Polvese.
Qui sbocciò l’amore tra i due giovani che, con il consenso del re Tirreno, dapprima contrario alle nozze, si sposarono. Ma la loro felicità durò il tempo di un giorno: Trasimeno decise di fare un bagno nel lago. Mentre Agilla lo guardava dalla riva, il giovane, improvvisamente, finì sott’acqua, senza riemergere.
La ninfa continuò a cercarlo incessantemente giorno dopo giorno, esplorando anche ogni imbarcazione che attraversava le acque, fin quando, esausta, terminò i suoi giorni su una barca in mezzo al lago.
Da quel momento, nelle serate d'estate, quando la brezza sorvola le acque del lago facendo ondeggiare le foglie degli alberi che lo circondano, sembra di sentire un lamento: è il canto della ninfa Agilla, alla ricerca del suo bellissimo principe!
E quando il lago si increspa e un’onda rischia di fare rovesciare le barche, è la ninfa che crede di avere ritrovato il suo Trasimeno.
La Chimera di Arezzo
Suo padre fu Tifone, il cui corpo gigantesco culminava in cento teste di drago. Giace relegato sotto una delle isole vulcaniche della nostra terra (Ischia o la Sicilia), ancora fremente della rabbia che lo portò un giorno lontano a sfidare gli dei, a cacciarli dall'Olimpo ed a ferire Zeus.
Sua madre fu Echidna, la vipera, per metà donna bellissima e per metà orribile serpente maculato. Viveva in un antro delle terre di Lidia, cibandosi della carne degli sventurati viaggiatori.
Chimera è solo uno degli esseri mostruosi generati da Tifone ed Echidna. Suoi fratelli furono Cerbero, cane infernale dalle tre teste, la famosa Idra uccisa da Eracle, e Ortro feroce cane a due teste guardiano delle mandrie del gigante Gerione.
Chimera è la personificazione della Tempesta, la sua voce è il tuono.
Molte e diverse sono le rappresentazioni iconografiche del mostro leggendario. Probabilmente ad Esiodo (Teogonia) si ispirò l'artista che la raffigurò' a Cerveteri con tre teste frontali, le cui due laterali di leone e di drago e la centrale di capra. All'Iliade invece sembra ispirato l'artefice della Chimera di Arezzo, leone davanti, capra sul dorso e serpente dietro.
"Lion la testa, il petto capra, e drago la coda;
e dalla bocca orrende vampe vomitava di foco ...
(Iliade, VI, 223-225 trad.V. Monti)
Il mito, così concepito in Grecia, fu conosciuto e rielaborato anche in Etruria, da dove provengono, oltre alla monumentale scultura, diverse rappresentazioni del mostro, tra cui anche un bronzo di piccole dimensioni esposto oggi nelle sale del Museo.
Il bronzo, rinvenuto all’interno di una stipe votiva assieme ad altri materiali, costituiva in origine un’offerta al dio Tinia (la divinità etrusca corrispondente a Zeus e Giove) come si ricava dall’iscrizione sulla zampa anteriore destra; presumibilmente faceva parte di un gruppo scultoreo in cui era rappresentato anche Bellerofonte, posto di fronte all’animale.
Biblio
La religione degli etruschi. Divinità, miti e sopravvivenze, di Giovanni Feo
“Origins and Evolution of the Etruscans, mt DNA” by Silvia Ghirotto, Francesca Tassi, Erica Fumagalli, Vincenza Colonna, Anna Sandionigi, Martina Lari, Stefania Vai, Emmanuele Petiti, Giorgio Corti, Ermanno Rizzi, Gianluca De Bellis, David Caramelli, Guido Barbujani . Marzo 2013).
Scrivere etrusco, che contiene anche il "libro di Zagabria" e il "cippo di Perugia". Francesco Roncalli
Tabula Capuana Mauro Cristofani
La civiltà etrusca" Keller 1981, Garzanti
"Etruscologia" M. Pallottino, Hoepli Milano 1968
“Tarquinia” Maria Castaldi, Regione Lazio Ass. Cultura , Quasar 1993
“Origini e Storia Primitiva di Roma” M. Pallottino, Ed. Bompiani 2000
“Guida insolita ai luoghi, ai monumenti e alle curiosità degli Etruschi” Chiesa, Facchetti, Newton & Compton Ed. 2002
“Le Vie Cave Etrusche“, Giovanni Feo edito da Laurum
Link interessanti
http://www.persee.fr/doc/mefr_0223-5102_1988_num_100_1_1591
http://www.renzobaldini.it/la-cosmologia-etrusca/
https://www.etruscancorner.com/it/conoscenze-arcaiche/libri-e-tradizioni/