IL SOGNO DI SVAPNÃMUDRÃ
di Nunzia Coppola Meskalila
PROLOGO
Questa è una tra le mille versioni sulla vita di Svapnãmudrã,[1] la saggia sul cui nome molte leggende fiorirono e di cui pochi conoscono l’altra storia. Nel Sud dell’India, ella è conosciuta come fedele sposa di Ãkãsthya[2] e nel Kashmir, si parla di lei come profetessa e scrittrice; solamente in alcune regioni del Bengala e dell’Ãssam, qualcuno conserva i frammenti di una cronaca misteriosa che dipinge l’asceta in un aspetto un po’ diverso da quello consueto. Sulla sua infanzia, si sa solo che studiava i significati occulti delle stelle e che scriveva poesie, racconti ed inni sacri. La parte luminosa delle sue vicende inizia dal momento in cui sposò Ãkãsthya, il saggio nato dalla sacerdotessa Rãkshahari e dal Rishi[3] Mitrãkaruna.
La parte oscura, invece, sembra sia nascosta tra le stelle o nelle immagini di un sogno. In realtà, la storia di Svapnãmudrã è un percorso formativo per gli astrologici che vogliono studiarne le analogie ed estrarne i significati personali e collettivi. Almeno una volta l’anno, i ricercatori s’impegnano per una giornata di riflessione su questa storia, al fine di scoprirne nuovi significati. Di tanto in tanto, essi s’incontrano per scambiarsi i risultati delle rispettive ricerche. E non accade mai che la teoria dell’uno sconfessi quella di un altro. Come si sa, su di un solo mito, come su di un solo sogno, si può lavorare per un’intera vita, trovando sempre nuove rispondenze. La soluzione assoluta non esiste. Non vi è un cammino unico. I simboli sono un’immensa miniera di conoscenza ed ognuno può trovarvi i gioielli che cerca.
LA STORIA
Dopo il matrimonio, gli sposi si stabilirono a Benares e si dedicarono al culto di Mahãtripurãsundari. [4] Votati all’ascesi e all’adorazione della Dea, i due raggiunsero lo stato di liberati in vita. Ai loro occhi, il sasso e la pietra preziosa, il dolore e il piacere, il simile e il diverso, così come tutti gli opposti, avevano lo stesso e identico valore. Semplici, sereni e imperturbabili, per numerosi anni, essi praticarono i riti occulti e insegnarono il Tantra. Svapnãdevi si occupava delle richieste dei discepoli e trasmetteva loro le dottrine segrete, Ãkãsthya custodiva il fuoco sacro, elaborava i temi astrologici dei visitatori e impartiva le iniziazioni. Il loro eremo divenne presto famoso e si popolò d’allievi che arrivavano da tutte le parti dell’India. Ad un certo punto, stanca di tanta popolarità e desiderosa di solitudine, Svapnãdevi convinse il marito ad abbandonare Benares per recarsi sulla montagna Vindhiyãchala. In quell’oasi di pace, essi ritrovarono la perduta intimità, ma il ritiro durò ben poco perché i discepoli e i devoti che li adoravano come Dei, li raggiunsero anche in quei luoghi sperduti.
Trascorsero alcuni anni.
Un mattino di fine maggio, Svapnãdevi si recò nella giungla a raccogliere dei fiori. Avvicinandosi ad un cespuglio di gelsomini, vide un bellissimo e strano cobra dagli occhi argentei e dalla pelle verde. Alla vista del sacro rettile[5], ella fece l’inchino rituale e gli offrì del latte. Grato, il serpente, le sussurrò:
“Svapnãdevi carissima, specchiarmi nella profondità dei tuoi occhi è più piacevole che bere il latte sacrificale. Lo splendore del tuo sorriso sta tramutando il mio veleno in essenza medicinale.[6] In virtù di questo prezioso incontro, voglio offrirti il risveglio delle emozioni terrene! Ti prego, chiudi il terzo occhio e guarda il mondo con la tua vista umana.”. Così parlò il serpente dagli occhi lunari e dalla pelle di smeraldo. Poi scomparve.
Svapnãdevi non ebbe modo di replicare. I voti d’asceta la obbligavano ad accogliere qualsiasi offerta, si trattasse anche di cosa futile, sgradevole o pericolosa. Subito dopo, un lampo squarciò le nuvole e attraversò il corpo della romita, una pioggia torrenziale cadde sulla terra e il suolo si trasformò in un mare di fango. Quando la donna si accorse di avere i piedi sporchi, provò un senso di fastidio all’idea che la cavigliera d’oro potesse essere rovinata dalla melma e perciò, appena le nuvole si diradarono, corse allo stagno per lavarsi i piedi. Si accorse, mentre si chinava, di provare piacere per alcune cose e disgusto per altre. Il ciottolo e la pietra preziosa non avevano più l'identico significato ai suoi occhi. Comprese allora che il distacco dalle realtà terrene non faceva più parte della sua natura. Poi ammirando il riflesso del proprio viso nelle acque, sussultò, trovandovi un’espressione nuova e sconosciuta. Si accorse che iniziava ad avvertire le dieci emozioni[7] di base. Per prima, sentì lo stupore. Oltre alle emozioni, avvertì alcune sensazioni dimenticate, da tanto tempo. Sorpresa dalle nuove percezioni, alzò il capo e scorse un meraviglioso cigno. Riconoscendo in esso il veicolo[8] della Dea Sarasvati, lo salutò e gli offrì dei frangipani.[9]
Così trascorse un’intera giornata.
Poco prima del tramonto, Svapnãdevi avvertì l’intenso desiderio di rivedere Ãkãsthya, ma il suono dei cembali provenienti dal tempio, attrasse la sua attenzione. Incuriosita, ella corse per assistere al rito serale. Troppo tardi, le porte sacre erano chiuse. Allora, sorpresa e confusa, ella prese a vagare per la foresta, finché giunse all’ombra di un banyan[10], ove un bellissimo sedicenne dalla pelle dorata e dagli occhi color del sole, fissava un silenzioso e immobile asceta, seduto in meditazione. Era impossibile stabilire l’identità del santo perché il volto era nascosto dalle foglie cadenti e il corpo era in penombra. Svapnãdevi non identificò l'immagine vaga di quell'anacoreta dal corpo inerte come le ceneri di un fuoco estinto. Vide l’adolescente prostrarsi ai piedi di lui. Vide le mani del ragazzo unirsi in Anjali Mudrã (il gesto rituale dell'offerta dei fiori) e lascair cadere una manciata di ibisco ai piedi del maestro. Ella guardò ancora il sedicenne dallo sguardo d’oro. Poi, captando una muta richiesta d’aiuto, compassionevole, gli rivolse la parola:
“Giovane ricercatore di verità, tu stai aspettando invano. Quest’eremita è in Nirvikalpa Samãdhi.[11] Niente potrà ridestarlo, anzi potrebbe persino non far ritorno sulla terra. Se cerchi un Maestro, dovrai rivolgerti altrove o attendere per un tempo indefinito.”. Così parlò Colei che si era risvegliata al mondo.
Accorgendosi che il giovane dallo sguardo dorato era in preda alla disperazione, la donna asceta si avvicinò, gli sfiorò i capelli con una lieve carezza, gli asciugò le lacrime con un lembo del suo sãri[12]e mormorò:
“Ragazzo, tu hai risvegliato un antico sentimento nel mio cuore d’eremita e perciò, voglio donarti VĀK SIDDHI, il potere della parola, l’energia che fa avverare tutto ciò che dici”. Così annunciò l’asceta commossa, toccando la gola del ragazzo e mormorando il mantra di Sarasvati, Dea della parola.
Al tocco della saggia, il giovane fu scosso dai brividi e perse i sensi, ma una volta ripresa coscienza, così rispose:
“Sacerdotessa, perché mi hai reso prigioniero di un dono non richiesto? Avrei preferito diventare muto, piuttosto che ricevere questo temibile potere. Ora, non mi resta che usarlo. E lo farò all’istante.”. Così affermò il fruitore del sacro dono. Poi si volse verso l’asceta meditante:
“Saggio illuminato, eremita in estatica beatitudine, sei così desideroso di sollevarti in levitazione, da non accorgerti della mia presenza e da ignorare il dolore dei miei piedi lacerati dal lungo cammino. Asceta divino, qual è il valore della tua comunione con il Cosmo, se ignori l'altrui sofferenza? Voglio che tu capisca la mia angoscia e perciò, ti obbligherò a ritornare al mondo. Quando la luce della stella mattutina toccherà le tue palpebre, ti ridesterai alla vita umana e ne conoscerai grandezza, miseria, gioie e imperfezioni.”. Così gridò il giovane toccato dalla Signora della parola …e questa fu la prima profezia.
Nel cielo era presente Ras Alhague, l’astro più luminoso d’Ofiuco.
Trascorse l’intera notte. Un bagliore improvviso aveva, ormai, svegliato il saggio meditante.
Le stelle scomparvero dal firmamento, Svapnãdevi si avviò verso casa e ivi giunta, si sentì stremata. Per la prima volta, avvertì l’ansia per l’assenza del marito e temette di perderlo per sempre, nel caso fosse partito in Nirvikalpa Samãdhi. Frastornata dalle numerose emozioni cui non era abituata, si accoccolò sul gradino della capanna e attese.
Al primo raggio di sole, Ãkãsthya fece ritorno all'abituro, abbracciò la compagna e le comunicò che uno strano bagliore aveva interrotto, bruscamente, la sua meditazione. Felice di rivederlo, Svapnãdevi gli offrì un sorriso, dei fiori, dell’acqua, un dolce e una scodella di riso soffiato. Gli porse poi l’anfora del sacro soma, la sostanza per i riti tantrici, che lei non gradiva, né consumava, ma rispettava e offriva volentieri. Il saggio iniziò a bere ma, accorgendosi di non riuscire a dissetarsi, né a fermarsi, ebbe paura: qualcosa era cambiato in lui, stava perdendo il controllo della mente e il distacco dai bisogni. Guardò il corpo della moglie e sentendo un desiderio folle bruciargli la pelle, sconvolto e fremente, le si avvicinò. Svapnãdevi, abituata ai piaceri sottili dell’amplesso rituale, non ritrovò nello sposo il raffinato e distaccato amante del passato. Si accorse allora di provare disgusto. Fu così che il saggio perse il controllo del Kãma bija[13] e la yogini[14], rinunciando all’amore per un mortale, dimenticò il desiderio ed il piacere. Ãkãsthya sviluppò un attaccamento eccessivo per la moglie, uno strano turbamento lo sconvolgeva al solo vederla e lo faceva piangere di nostalgia ad ogni sua assenza. Sentendosi rifiutato dall’amata, ormai inavvicinabile e perduta, il shãdhaka[15] incominciò a consolarsi con enormi quantità di soma e non seppe più usarlo, come ingrediente rituale[16]. Del resto, nonostante le debolezze acquisite, al Rishi non mancava l'autocontrollo e perciò, restava un eccelso maestro per i discepoli, un saggio consigliere per i dubbiosi, un illuminato di gran compassione per i bisognosi e soprattutto, seguitava a fare miracoli. Egli, inoltre, nonostante la veneranda età, conservava sempre l'aspetto di un giovanetto. Anche la saggia conduceva la stessa vita e si occupava del suo seguito; anzi, fu molto attenta a non rivelare mai ad alcuno le nuove fragilità del consorte. In realtà, i due sposi erano sotto l’influsso delle emozioni terrene, che a Svapnãdevi erano state offerte sotto forma di benedizione e ad Ãkãsthya come maledizione .
Trascorsero quattro anni.
Una notte di fine febbraio, iniziarono i festeggiamenti annuali in onore di Ãkãsthya che in quel mese era adorato come il Dio S'iva[17]. Svapnãdevi, contrariamente agli anni precedenti, partecipò alla festa, affascinata dal canto e dalle danze dei Bãul.[18] Presa dall’eccitazione e dalla curiosità, ella volle capire se fosse ancora presente in lei la capacità di sedurre e quanto reale fosse la sua indifferenza al desiderio. Si concesse varie ore d’amore ma, nonostante il piacere provato, sentì ancora più forte il bisogno di tenersi lontana dai mortali. Alcuni giorni dopo, la shãdhikã (donna asceta), desiderosa di apportare un cambiamento radicale alla sua vita, decise di recarsi nella foresta per adorare Svãpnesvari, Dea dei sogni e sua protettrice. Voleva chiederle una visione rivelatrice, attraverso il metodo della Dhyãna Nidrã.[19] Giunta ai piedi di un albero, preparò l’altare votivo, offrì gli ingredienti rituali, accese il fuoco sacro e lo vegliò, fino all’ultima scintilla. A notte fonda, la donna depositò i dodici oggetti magici nel sacchetto del viaggio onirico e preparò il paniere delle offerte. Al momento di costruire lo Yantra[20]dei sogni astrali, ella ricordò di avere una pessima manualità e che, pur conoscendo l’uso e l’arcano significato dei colori, non sapeva disegnare. Nel passato, durante i sacri riti, era stato sempre suo marito a raffigurare i simboli. Allora, prese il ritratto di colui che aveva amato e lo fissò per trarre ispirazione. L'immagine restò muta.
Svapnãdevi si sentì afflitta, ma non si arrese; dopo un attimo di riflessione, si concentrò sul suono del suo stesso nome.[21] Poi, sfiorando il vaso sacro, invocò Sarasvati, Dea della Conoscenza. Improvvisamente, le venne in mente che una qualsiasi azione poteva essere eseguita, anche in maniera simbolica, con l’aiuto delle Mudrã.[22] Eseguì, allora, tutti i gesti che rappresentavano le forme da raffigurare e infine, cantò il mantra monosillabico dei sogni astrali. A poco a poco, grazie alla magia del gesto e del suono, l’intera foresta cantò con lei: gli alberi, gli animali, gli insetti ed ogni singola creatura erano in sintonia con la divina sillaba dei sogni. La natura intera partecipava alle visioni della meditante e da quel momento, il suo nome fu Svapnãmudrã. Quella notte, grazie all’incantesimo dei gesti della donna e alla magia delle dodici pietre[23], persino quei saggi e asceti delle foreste limitrofe che non avevano assistito al rito,[24] dormirono all’unisono e vissero lo stesso sogno nel medesimo istante.
Nel cielo vegliava Acamar bianca e azzurrina .
IL SOGNO
Dalle brume della visione collettiva, la Dea Svãpnesvari si manifestò, per poi tramutarsi nel serpente lunare. Il rettile fissò la donna che aveva attivato i sogni di tutti i meditanti e le parlò, attraverso la forza delle sue pupille:
“Dolce Svapnãmudrã, ti prego, contempla i miei occhi”. Questo comunicò lo sguardo dell'affascinante cobra smeraldino dagli occhi d'argento.
La devota fissò fiduciosa le iridi del serpente e in esse vide i suoi stessi globi oculari, scorse il triste sguardo del sedicenne, trovò gli occhi luccicanti del marito, ammirò i bulbi oculari di un cigno, fu ammaliata dalle pupille di tutte le creature viventi e infine, ritrovò i tre occhi incantevoli della Dea Tripurã che, una volta riprese le forme originali,[25]così annunciò:
“Svapnãmudrã, ti ho mostrato la mia Lilā[26] perché è arrivato per te il tempo di cambiare. Lascerai le rosse vesti[27]d’asceta, ritornerai in città e indosserai tutti gli altri colori. All’esterno, sarai un’anonima terrena. Nel segreto della tua essenza, resterai un’asceta. Eviterai, come già sai fare, di convertire la gente alle tue idee. Ti asterrai da ogni forma di proselitismo[28] rivelando la mia Vidyã[29]solo a coloro che la chiederanno con fermezza perché, come già ti è noto, non esiste la Via unica o assoluta, e ognuno ha una sua strada. Durante questo nuovo viaggio, perseguirai il tuo progetto karmico, ma scoprirai anche una nuova Arte, tutta da apprendere.” Così affermò la Dea rossa e scomparve, dopo aver scritto su di una foglia il mantra bisillabo HAMSA.[30] La stessa scena appariva a tutte le creature presenti. Per ogni essere sognante, lo spettacolo si arricchiva di contenuti e sfumature, derivanti dalle emozioni personali. Nello stesso tempo, s’impreziosiva di significati, provenienti dalle infinite sensazioni, trasmesse dai mille altri personaggi che condividevano la rappresentazione onirica. La natura intera partecipava al sogno e attraverso la figura di Svapnãmudrã, ognuno riceveva un messaggio, lo leggeva secondo le emozioni del momento e lo traduceva in un'azione inerente ai propri bisogni.
Nel cielo brillava la costellazione del Cigno di cui tutti conoscevano il significato: in positivo, la riscoperta del proprio Io, la realizzazione personale e l’unicità che spicca anche nel più oscuro anonimato; in negativo, il narcisismo e l’inflazione dell’ego con l'impulso a prevalere, anche a costo di sacrificare gli altri al proprio splendore.
IL CAMBIAMENTO
Al primo raggio di sole, Sapnamudra comprese di aver accettato con gioia quel cambiamento. In realtà, lo aveva desiderato, già prima dell'annuncio divino. La Sognatrice riaprì gli occhi, rinvenne al mondo e decise di partire. Pensando al marito accecato dall’amore per lei e sapendo che, pur restando un eccelso sādhu,[31]egli aveva sbagliato, ella provò compassione. Le mancò il coraggio di partire e pur di evitare il bruciore del conflitto, decise di ritornare ancora un po’ dal santo afflitto dal fallimento. Per la prima volta, volle prolungare, oltre i limiti del comprensibile, un’esperienza ormai finita.
Trascorsero quasi due anni.
Con il passare dei giorni, ella vedeva Ãkãsthya, sempre più triste e cupo. Con il trascorrere dei mesi, capì che il malessere, derivante dalla diminuzione del distacco ascetico, era tanto profonda in lui, quanto era stato intenso l'equilibrio della vita passata. La sacerdotessa si accorse che si stava allontanando dal compagno, sempre più. Egli, a sua volta, pensava che la moglie fosse indifferente al suo tormento. Una sera di novilunio, fissando il cielo e scorgendo la Dea Tãrã, lei l’adorò con i riti stagionali e poi s’immerse in una profonda meditazione. All’alba, riprese i sensi, ritornò per l’ultima volta all’eremo e con voce appena udibile, disse al sant'uomo:
"Kshepã,[32]sono stanca e forse, ammalata. Vado verso le colline dell'Ovest per curarmi. Ritornerò, quando starò meglio" Così bisbigliò la Distaccata, sapendo di mentire per pietà.
"Amica, lascia che io t'accompagni per un breve tratto, poi tornerò all'eremo e dalla soglia, resterò a guardarti, mentre t’allontani. Una volta di là dall’orizzonte, ti prego, parlami, così che con l'eco del ricordo, io possa sentire all'infinito, il suono delle tue mille voci. Permetti poi che io mediti sul tuo nome e sulla tua figura, così che nell’attesa di un sicuro ritorno, io possa sognarti ogni notte." In questo modo, implorò l'innamorato, fingendo di sperare.
Invisibile ma potente, l'astro arancione Kaus Borealis emanava i suoi raggi.
Svapnãmudrã posò la testa sul petto del compagno, gli prese la mano, con l'altra gli cinse la vita e dopo aver percorso con lui un breve pezzo, si allontanò da sola. Una volta di là dell’orizzonte visibile, ella gridò forte il nome del consorte abbandonato, lo salutò e poi, scomparve per confondersi nei colori della folla cittadina, alla stregua di una comunissima mortale. Nei suoi occhi brillava una luce indecifrabile e inafferrabile. Un'espressione enigmatica la rendeva assente dal mondo e dalla gente, pur se apparentemente, era partecipe. Non si riusciva a capire se l'arcano di quello sguardo fosse il riverbero delle stelle e della luna che ella aveva studiato e venerato, sin dalla più tenera età o se fosse il muto terrore per un mondo terreno, fatto di regole a lei poco gradite, o chissà che altro ancora. Nessuno riuscì mai a sondare il mistero della portatrice di sogni.
Trascorsero cinque anni. Una sera di fine giugno, mentre meditava sul cielo estivo, ella intuì l’esistenza di un nuovo astro e volle analizzarlo per afferrarne la natura. Studiare le virtù di quel pianeta si rivelava cosa molto ardua. Allora, Svapnãmudrã decise di ricorrere alle visioni della Dhyãna Nidrã e si allontanò dalla città. Recatasi in un bosco, ella accese il fuoco sacro e dopo averlo alimentato con gli ingredienti rituali, lasciò che si consumasse da solo. Quando le ceneri divennero bianche come la luna, prese dalla borsa il sacchetto con le dodici pietre magiche, recitò il mantra del viaggio onirico, s’immerse nella meditazione e passò dallo stadio di sonno senza visioni a quello del sogno vigile[33]. In poco tempo, ai suoi occhi, si spalancò l’Universo: vide tutte le stelle, vagò nel Cosmo, visitò mille pianeti e poi, riatterrando, giunse alle soglie della capanna in cui aveva abitato nel passato. Lì, scorse Ãkãsthya in Nirvikalpa Samādhi, lo vide poi ascendere al cielo e trasformarsi in una stella. All'istante, ella comprese che il compagno era morto dal dolore per l'abbandono. Sconvolta, incominciò a tremare. Stava per essere sopraffatta dallo sgomento, poi si concentrò su di una visione esterna che neutralizzò subito il dolore e soprattutto, il rischio di soccombere al peso di un'emozione dirompente.
Al risveglio, la donna non volle più occuparsi di un passato luminoso, ma assai opprimente. Dimenticò ogni cosa, compresa la visione. Con l'oblio, scomparve anche la sensibilità alle emozioni. Svapnãmudrã era ritornata allo stadio del distacco emotivo, ma questa volta, in maniera dissonante, squilibrata e con sviluppi d'altra natura. Nel medesimo istante, comprese il significato del nuovo corpo celeste. Si trattava di un pianeta sconosciuto e ancora invisibile. Pur ignorandone il nome, ella intuì che simbolizzava in positivo, la spiritualità e l’ascesi; al negativo, l'evasione, l’illusione o la mancanza d’interesse per la vita.
Vuota di sentimenti e di emozioni, un giorno, ella pregò per uscire dall’oblio. Voleva ritrovare il gusto amaro e dolce della vita, attraverso i sensi e le emozioni.
EPILOGO
Dopo varie esperienze e varie vite sotto altri nomi, la donna ideò la pratica dell’Hãmimata[34]Vidyâ, discostandosi per un po’ dalla linea Kâlimata[35]di Ãkãsthya. Al ritorno da una visita al tempio dei nove pianeti in Ãssam, ella si dedicò alle ricerche sulla natura degli astri e al loro influsso sull’animo umano. Meditando sul nuovo pianeta senza nome, ricordò, a poco a poco, le antiche storie stellari e una sua scorsa vita con il nome di Svapnãmudrã. Ricordò l'antico vissuto d’asceta, rivide un antico volto amato, rammentò le sembianze dei devoti che si recavano all’eremo e le mappe astrali disegnate dal marito…poi, volle progredire. Fu così che, ai calcoli, al disegno, alle carte dinamiche, ella aggiunse la meditazione, il sogno e il gioco dei simboli. Nacque l’Astrologia karmica. Poi ci fu l’incontro… e fu felice di unirsi al suo cammino.
Ma quale fu l'Arte che la Dea le aveva promesso di scoprire?
In quella nuova esistenza, ritrovò il gusto amaro e dolce delle emozioni terrene?
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[1] Sapnãmudrã = il nome significa “Gesto rituale del sogno”
[2] Ãkãsthya = dalla radice ãkãsh, cielo. Significa fatto di cielo.
[3] Rishi = Erano chiamati così i vati e i profeti dell'antichità. Secondo le sacre scritture hindu, ogni rishi fu tramutato alla sua morte, in una stella o in una costellazione.
[4] Mahãtripurãsundari = è la Dea che con la sua bellezza protegge lo splendore delle tre città sacre.
[5] Sacro rettile = per gli hindu, i serpenti sono sacri, rappresentano la Conoscenza e la spiritualità. Anche la Kundalini, la Dea presente come Energia nei Chakra, ha la forma di un serpente arrotolato. La gola del Dio S'iva è adornata da un cobra.
[6] Medicinale = il veleno dei serpenti, in dose ridottissima è usato come potente medicinale. In senso metaforico, nelle pratiche del Tantra, molti degli ingredienti sono considerati veleni che possono uccidere o guarire.
[7] Dieci emozioni = per gli hindu, le dieci emozioni di base sono: piacere, dolore, allegria, tristezza, collera, tranquillità, coraggio, paura, meraviglia, disgusto.
[8] Veicolo = ogni Divinità cavalca un animale che oltre ad essere il proprio veicolo per i viaggi astrali, è anche il simbolo che rappresenta le sue caratteristiche. Ad esso vengono tributati gli stessi onori e la stessa venerazione che al Dio corrispondente.
[9] Frangipani = sono fiori dal profumo intenso e sono offerti alla Dea Sarasvati. Ogni Divinità ha il suo fiore particolare, il suo profumo, il suo colore e il suo veicolo.
[10] Banyan = ficus bengalensis.
[11] Nirvikalpa Samãdhi = è lo stato in cui la coscienza è unita all'intero creato ed è del tutto indifferenziata, perché priva di rappresentazioni (nirvikalpa) mentali. In tale stato, il meditante, la meditazione ed il soggetto su cui si medita diventano una sola cosa. Il termine Samãdhi è usato anche per indicare la morte fisica o la tomba di un asceta.
[12] Sãri = è il tipico abito femminile indiano, costituito da cinque metri di stoffa da drappeggiare intorno al proprio corpo.
[13] Kãma bija = indica il mantra monosillabico (bija) del piacere (kãma) ma anche lo sperma. L'asceta tantrico, durante l'amplesso rituale, deve impedire la fuoriuscita dello sperma, grazie alle tecniche di ritenzione o di riassorbimento.
[14] Jogini =donna asceta che pratica una delle varie forme dello yoga.
[15] Shãdhaka = è l'asceta tantrico alla ricerca della Conoscenza e dell'illuminazione; il corrispondente termine femminile è shãdhikã.
[16] Ingrediente rituale = tra gli ingredienti per i riti tantrici vi erano il soma o l'alcool che erano usati in quantità minime o massime, senza che l'asceta potesse sviluppare un qualsiasi disturbo o dipendenza. In effetti, il sadhu tantrico è sempre sul filo del rasoio perché deve dedicarsi a pratiche pericolose dalle quali tenersi, in ogni modo, libero.
[17] S’iva = Il Benefico. Uno dei tre aspetti della Trimurti. Il Dio S’iva insieme con la sua S’akti permette la trasformazione, alla fine di ogni ciclo. Nel processo di evoluzione cosmica, S’iva rappresenta la coscienza pura.
[18] Bãul = sono gli aedi dediti ai canti e alle danze devozionali che raccontano gli amori del Dio Krishna e della sua amante Rãdhã. Seguono alcuni principi del Tantra ad indirizzo vishnuita e rallegrano le feste in onore di persone importanti.
[19] Dhyãna Nidrã = Si tratta della meditazione, attraverso il sonno con i sogni (nidrã), una pratica usata dai Tantrici hindu. Tecniche simili sono solite anche presso i Pellerossa delle tribù Lakota Sioux.
[20] Yantra = è un diagramma colorato, fatto di figure perfette che s’intrecciano tra loro e simbolizzano una Divinità o la rappresentazione segreta di un suo aspetto. Ogni yantra corrisponde ad un determinato mantra. Esistono anche Yantra usati come amuleti protettivi. Nel linguaggio comune, la parola yantra indica uno strumento di qualsiasi genere.
[21] Nome = la meditazione sul proprio nome è un metodo d’espansione della coscienza molto usato dai mistici della corrente tantrica.
[22] Mudrã = Letteralmente, significa sigillo; le Mudrã rituali sono gesti speciali che, oltre ad un significato segreto, hanno poteri incredibili su chi le esegue o su coloro per i quali sono eseguite. In genere, sono associate ai mantra, nel corso delle cerimonie sacre.
[23] Pietre = per la pratica del sogno astrale, le gemme sono: rubino, perla, smeraldo, diamante, ametista, lapislazzuli, corallo, turchese, opale, occhio di tigre, zaffiro blu e topazio giallo. In mancanza di tali pietre si usano oggetti o sassi dello stesso colore.
[24] Rito = di solito, questo rito è eseguito in gruppo, in modo che ognuno possa offrire il proprio sogno.
[25] Forme originali = La Dea Tripurâ, come ogni altra Divinità, oltre ad avere la sua forma principale, prende tantissimi altri aspetti e nomi, tra cui quelli menzionati.
[26] Lila = Significa gioco, rappresentazione, opera teatrale, miraggio, trasformazione da un personaggio ad un altro.
[27] Rosse vesti = gli asceti tantrici indossano solo ed unicamente il colore rosso, simbolo d’azione, invece che l'ocra, l'arancione o il bianco, usati in segno di rinuncia, da asceti d’altre scuole.
[28] Proselitismo = Il Tantra è contrario ad ogni forma di proselitismo, alla conversione degli altri alla propria fede e alla creazione d’istituzioni religiose.
[29] Vidyã = Conoscenza. L'opposto è Avidyã, ignoranza.
[30] Hamsa= significa cigno ma si traduce anche con la formula segreta “io sono lei” se l’accento è posto sull’ultima sillaba e se l’asceta s’identifica con la Dea; diventa “io sono lui” se non vi è l’accento e se il devoto s’identifica con il Dio. L’alternarsi delle due sillabe rappresenta anche i due momenti della respirazione. Hamsa è inoltre il titolo onorifico dato ai sadhu e agli asceti illuminati.
[31] Sadhu = asceta, santouomo.
[32] Kshepã = è il vezzeggiativo usato per rivolgersi ai sadhu tantrici illuminati e particolarmente amati dai devoti. Significa matto, nel senso di alienato dal proprio corpo e rapito in estasi; non significa pazzo nel senso patologico della parola, anzi in tale caso, si usa il termine "pãgal" o "pãgla"che, a sua volta, è anche usato come appellativo affettuoso per indicare una persona fuori dal comune.
[33] Sogno vigile = uno dei cinque stati di coscienza, secondo il Tantra.
[34] Hãmimata = è il cammino per la conoscenza dell’io umano, della propria umanità. Questo percorso è basato sulla misura del tempo umano. Hã è l’inizio di Hãm, io.
[35] Kãlimata = indica il cammino per la conoscenza della Dea ed è rappresentato dal tempo cosmico. Kã è l’inizio di Kãla o tempo universale e di Kãlî, la Dea oscura.